Presso il Ridotto del Teatro Verdi, nell'ambito di pordenonelegge
Presentazione del libro di Beatrice Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis 2015
Eliana Villata presenta l'incontro con Beatrice Bonato che discuterà del suo libro con Damiano Cantone
Beatrice Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Prefazione di Pier Aldo Rovatti, Mimesis, Milano-Udine 2015
La fede nella competizione riveste un ruolo fondamentale nel sistema di valori e nel modello antropologico oggi dominanti. Questo saggio cerca di indagare le radici del fascino con cui il paradigma competitivo ci cattura, di portarne alla luce le stratificazioni eterogenee, di ricostruirne una genealogia filosofica oltre che economica. L’analisi non è neutra: suggerisce uno spostamento, una sospensione della competizione come necessaria correzione di rotta per il nostro modo di pensare e di vivere. Un esercizio etico volto a disegnare spazi di esperienza e pratiche sociali diverse dalle gare, ma anche a riconoscere quelle già esistenti.
La recensione di Eliana Villalta
Appena uscito in libreria, Sospendere la competizione è uno studio di ampio respiro, in cui confluiscono in parte alcune delle ricerche precedenti dell’autrice, arricchite dal civile e rigoroso confronto con un’ampia bibliografia recente e meno recente sull’argomento. Il libro dialoga in modi diversi anche con alcuni degli autori presenti in questa edizione di pordenonelegge, ad esempio Roger Abravanel e Jean-Luc Nancy.
Parto dal titolo, dove campeggia evidentemente il tema della competizione, assunto come problema, a indicare il nucleo di un paradigma politico e culturale oggi dominante, ben più esteso della discorsività economica. Il modello competitivo poggia su una concezione antropologica antica e tuttavia ridisegnata in forma più ingenua e inquietante. È noto che alcune autorevoli voci si spingono a considerarlo quasi come una nuova religione, una fede almeno, nota sotto l’etichetta di neoliberalismo.
La competizione, come mostra Beatrice Bonato, è onnipervasiva, si estende ben oltre la competizione economica e il mercato, fino a plasmare la nostra quotidianità e soggettività e senza che ce ne accorgiamo; molto rapidamente produce forme di asservimento, di svuotamento del vivere democratico. Siamo messi in competizione, in forme il più delle volte distruttive, con gli altri e con noi stessi, non solo nella sfera professionale, bensì ogni volta che scegliamo come parlare, come stare con gli altri, come guardare ai nostri figli, ai nostri affetti, ma anche che cosa mangiare, come vestirci e così via. Il problema dunque non è tanto che l’inevitabile fatica del vivere sia enormemente accresciuta, ma che l’umanità sia schiacciata da questo nuovo imperativo, COMPETI!, che conforma a sé il nostro sentire e i nostri modi di stare al mondo, presentando la vita stessa come una incessante gara.
Beatrice Bonato, tramite una puntuale analisi di una vasta letteratura, non solo filosofica e sociologica, con la quale entra in dialogo critico, descrive le origini culturali, la portata concettuale, le numerose aporie e i paradossi generati dal comando a competere, non mancando di illustrarne le manifestazioni più pregnanti e pericolose nell’ambito della sanità, dell’educazione e, naturalmente, del potente universo sportivo. Una parte del testo sviluppa, ad esempio, la questione della meritocrazia, della misurazione e della valutazione, nelle aziende, nella scuola pensata come azienda, ma in generale secondo un paradigma agonistico e sportivo abbastanza manifesto, palese. L’analisi ne mostra le ambiguità, ma anche gli effetti etici e politici.
Il sottotitolo del libro, “un esercizio etico”, porta alla luce sia questa discussione critica, come aspetto peculiare di un’etica del pensiero, sia la proposta in cui si sostanzia infine il lavoro. Il titolo inizia, infatti, con il verbo sospendere: strano tipo di azione o attività inoperosa, in un certo senso, che porta in campo, accanto all’esercizio critico magistralmente condotto sul comando del competere, un altro tipo di esercizio, eticamente qualificato nell’agire individuale e comune. L’esercizio della sospensione richiama l’epochè husserliana, come Bonato non manca di chiarire, e come sottolinea puntualmente Pier Aldo Rovatti nell’introduzione, ma è subito chiaro - com’è chiaro nella scrittura e nel pensiero l’intero volume – il fatto che non si tratti semplicemente di un ritorno alla fenomenologia, perché la sospensione assume la forma di una pratica, di un esercizio appunto, di una proposta etica e non precipuamente teoretica. In che cosa può tradursi questa etica? Mi pare di poter affermare che l’esercizio di sospensione della competizione, non prometta tanto di alleggerire la fatica del vivere, quanto di reintrodurre possibilità umane fondamentali, teoricamente e praticamente scartate dal paradigma ideologico dominante. In un certo senso, allora, la sospensione più che consistere in una fuga o un’azione sedativa, può avere la funzione di riaccendere nuove forme di entusiasmo, di aprire spazi di relazione, di libertà, di bellezza che, oggi, sembrano sempre più marginali. Perché non dire che la sospensione riapre al gioco, come hanno fatto alcuni, che hanno voluto neutralizzare la critica accusandola di inanità, escludendo ogni proposta di forme di vita alternative? Non è così semplice. Non tutti i giochi sono agonistici, è vero. Bonato dedica una parte importante del suo libro a quest’attività antropologicamente e culturalmente fondamentale, illustrandone le forme agonistiche, competitive, ma richiamando anche continuamente alla memoria l’esistenza di giochi non agonistici, nel corso di una disamina profonda dei molteplici significati di queste attività umane. Anche qui c’è un importante riferimento al lavoro di Rovatti, di cui Beatrice è stata allieva all’Università di Trieste, tuttavia è notevole l’ottica nuova in cui esso viene sviluppato in questo contesto problematico.
Bisogna essere molto attenti. Le puntualizzazioni presenti nel capitolo non hanno niente a che vedere con la deriva ludica e d’intrattenimento, di sgravio totale, che la richiesta compulsiva di dare a tutte le attività umane un carattere divertente assume oggi. Forse quest’attesa di leggerezza, o meglio di esonero, evidente specialmente nell’apprendimento, è la compensazione del carattere agonistico e “meritocratico”assunto dalle agenzie pedagogiche. Il gioco dà piacere nel suo essere molto serio, nel richiedere impegno e attenzione – lo dimostrano i bambini che imparano a diventare umani – ma può essere un esercizio in cui si tessono le nostre attività, le nostre relazioni, oltre la gara e la competizione. Come insegna Wittgenstein, gioco è anche forma di vita, appunto. Qui troviamo un altro punto importante del libro, il venir meno delle differenze fra le età della vita: come si è chiamati a competere e a essere valutati durante tutta la vita, così ci si aspetta a ogni età una sorta di diritto al divertimento, alla semplificazione, a un’infantilizzazione che è ben lontana dalla specificità dell’infanzia. Questa caratteristica del nostro tempo si traduce nel permanere in uno stato di minorità, quindi di obbedienza, con tutte le conseguenze politiche che si possono immaginare. I dispositivi tecnici assumono anche questa funzione di sgravio e sottomissione. Il gioco non è solo competizione, ma non va confuso con il divertimento. La sospensione qui si lega piuttosto a quel particolare modo di concepire l’azione che si rivela come arte del donare, un agire generoso, dunque, in cui non ci sono vincitori o vinti, ma un sapersi dare e un saper ricevere che, appunto, mettono in gioco un legame non calcolabile e non competitivo fra gli esseri umani e perciò un diverso modo di pensare la politica insieme all’etica.
L’esercizio etico non si declina quindi come un gioco, ma all’interno di un’idea della prassi assai pregnante, rielaborata sulla scorta di importanti filosofie del Novecento, come quella di Foucault, ad esempio. Un punto chiave, in questa sospensione, è una raccomandazione sulla pazienza, su un agire secondo tempi e modi che non sono quelli del mercato o delle nuove tecnologie.
L'intervento di Damiano Cantone
C’è una cosa che voglio dire subito all'inizio di questo dibattito. Quello di Beatrice Bonato è un autentico testo di filosofia, come non se fanno molti. Cosa intendo con questa frase sibillina? Intendo che in questo libro, finalmente, fa quello che la filosofia dovrebbe fare: vedere qualcosa di problematico là dove nessuno vede problemi, mettere in discussione i fondamenti del senso comune, spostare il nostro sguardo per farci vedere qualcosa che se ne stava nell’ombra e agiva di conseguenza. Non si limita al commento, alla chiosa, all’ermeneutica, contiene una tesi forte, esplosiva, e la difende e la argomenta in modo coerente.
La tesi è espressa in modo chiaro la prima riga del testo: “nella costellazione concettuale che chiamiamo neoliberismo, la nozione di competizione riveste una posizione significativa, forse fondamentale” e poi più sotto “il paradigma competitivo non è soltanto indesiderabile sul piano etico e politico, ma anche assai riduttivo nei suoi presupposti filosofici”. Dunque le sue fallacie non si verificano solo quando passo ad applicarlo, come se insomma fosse una sorta di ideale irraggiungibile ma auspicabile Il paradigma della competizione non funziona nella sua stessa formulazione teorica. E questo è il primo momento di sconcerto. Nessuno di noi è così ingenuo da pensare che la competizione sociale sia intrinsecamente “buona”, giusta e desiderabile. Ma quasi tutti pensiamo che potrebbe esserlo. Come possiamo infatti premiare il merito, valutare le competenze, migliorare senza competere? Senza un gioco regolato da regole certe e improntato al far play all’interno del quale ciascuno viene valutato per quello che vale e ottiene quello che merita? Tutte le politiche attuali, da quelle macro, come per esempio la riforma della scuola a quelle micro che possono riguardare la nostra vita quotidiana di tutti i giorni sono guidate da questo mantra: bisogna selezionare i migliori, premiare i meriti, favorire la sana competizione.
Beatrice Bonato fa notare che questa posizione non è così granitica, che qualche sospetto o qualche voce dissidente comunque si leva, ma sottolinea anche come nessuno si sia spinto fino a teorizzare la negatività di questo paradigma, la sua pericolosità teorica oltre che pratica. In quali termini? Ne specificherò alcuni. Innanzitutto al fondo di questo paradigma rimane presupposta un’idea antropologica di natura hobbesiana, l’homo homini lupus, ovvero un essere essenzialmente individualista e posto dalla natura in competizione con i propri simili. È evidente che se la competizione è un dato naturale diventa indiscutibile, ineliminabile e l’unica cosa che rimane da fare è rendere questo dato il più regolato, onesto e meritocratico possibile. Ci sarà una buona competizione e una disonesta, ma non si potrà mai, come invece invita a fare Bonato, sospendere la competizione.
Questo ovviamente vale anche nella vita politica delle persone, laddove il massimo che ci si può augurare è che le regole funzionino e garantiscano a tutti la possibilità di mettersi in gioco con le stesse possibilità. C’è in questo chiaramente un’eco sportiva, una componente agonica ineliminabile e presupposta genetica della società, come aveva già intuito Ortega y Gasset nel suo saggio sull’Origine sportiva dello stato nel 1924. Le regole del gioco sono la cornice della democrazia, all’interno della quale ciascuno compete, si auto-migliora, mette alla prova se stesso, in un inesausto esercizio di sé, e qui il riferimento a Sloterdjik è evidente nonché esplicito nel testo di Bonato. È un esercizio funambolico, senza rete di salvataggio che possa attutire la caduta. E qui veniamo a un altro snodo molto acuto del libro, ovvero laddove si mostra come ci sia uno stretto legame, sebbene non un’identità, tra la misurazione (intesa in larga misura come auto-misurazione, auto-valutazione) e la competizione. Sappiamo come sempre più si spinga verso pratiche di autovalutazione e quelle che sono le sue attività corollarie quelle di self improvement, ovvero il miglioramento di sé continuo (il long life learning) dei quaderni bianchi europei sullo sviluppo e l’educazione. La misurazione mi mette di fronte al fatto brutale che “non siamo tutti uguali”, che ci sono delle differenze individuali che si tradurranno in disuguaglianze di performance, di resa, e che quindi verranno valutate – e selezionate – dal mercato (economico, del lavoro, degli affetti). La metafora del mercato è sicuramente la più potente e omnipervasiva oggi. Dunque possiamo dire che la comparazione è il momento preliminare della competizione, un sano bagno di realtà o di realismo che mi dice subito in che categoria potrò competere e in quale invece finirei per essere inevitabilmente sconfitto. Qui la scuola ha un ruolo molto importante: con una provocazione, mi verrebbe da dire il ruolo dell’utile idiota dell’ideologia della competizione. Per cui la sua funzione non è in primis quella, un po’ democristiana del passato, ovvero formare buoni cittadini, competenti anche dal punto di vista umano oltre che professionale, ma diventa essenzialmente valutativa, certificativa. Si valutano le competenze disciplinari, quelle trasversali, si misurano le performance secondo indicatori sempre più puntuali, con lo scopo di fornire la miglior formazione possibile per competere nella vita, nel lavoro, economicamente. Così ecco che anche le stesse scuole vengono valutate in base a rating stabiliti in base ai successi dei loro allievi, e dunque anche esse sono in competizione fra loro, e addirittura gli stessi insegnanti all’interno di un stessa scuola.
Si vede come da un punto di vista della competizione il famoso gnozi seauton, conosci te stesso, assume una declinazione quasi beffarda, che ribalta il senso socratico della comprensione autentica e fondamentalmente mai raggiunta della propria essenza, per tradursi in una serie di dati misurabili e perfettibili, tabelle, zone di sviluppo e potenziali da esprimere che – come nota acutamente Bonato - avranno anche di mira il potenziamento della performance vera e propria ma di certo non la felicità dell’individuo, né il miglioramento generale della giustizia o della dignità umana.
Cosa c’è dunque in gioco in una forma di competizione di questo tipo? Di nuovo, non solo la nostra esistenza pratica, pur importantissima, né solo le politiche e i poteri che concretamente la governano. A essere in gioco è la definizione stessa di vita, un concetto importantissimo quanto ambiguo sul quale si impernia la maggior parte delle pratiche etiche della contemporaneità. Dalla medicina, al diritto, alla scuola – oggetto di un interessatissimo capitolo del libro – c’è oggi, direi, quasi una corsa a tentare di definire che cos’è la vita, a impadronirsi di questo concetto. Non per nulla quello di biopolitica è uno dei termini, coniato da Foucault nel 1978, che negli ultimi tempi è stato più usato dai filosofi e dai politologi per indicare da una parte la gestione del corpo umano nella società dell’economia capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo, e dall’altra la gestione dell’uomo come specie, base di processi biologici da controllare e indirizzare. La competizione dunque, lungi dall’essere un dato naturale, è una ben precisa antropotecnica, un progetto di gestione dell’umano. E, come dice Bonato nel capitolo che si intitola “Misure e contromisure”,
«Alla base dell’incitamento alla competizione si pone un progetto di controllo e di riduzione, piuttosto che di allargamento, delle libertà tradizionalmente associate al modello della società liberale. Un progetto di monopolio, o quantomeno, di divisione del mercato – nel senso più ampio possibile del termine – tra pochi soggetti dotati di adeguata potenza economica e tecnologica per fronteggiarsi» (p. 127).
Ecco il punto conclusivo: l’idea di competizione maschera il suo esatto, osceno, opposto: ovvero una volontà di controllo, conservativa, che vuole semplicemente mantenere le strutture economiche di potere nello stato in cui sono. Porre il problema della validità etica della competizione individuale significa porre un problema di libertà e di giustizia, poiché la competizione, lungi dall’essere un fair play, è un gioco che è truccato fin dalla sua stessa concezione. Nella parte finale Bonato individua però delle possibili “sospensioni della competizione”, delle zone minime di libertà, degli spazi etici nei quali fuggire a questi elementi costrittivi. È questa la parte del testo che certamente rimane più aperta a una possibile discussione.