Resoconto del seminario di Enrico Petris Il mestiere di pensare secondo la filosofia analitica del 18 novembre 2015.
La filosofia è un lavoro di copertura ?
Se la filosofia è un mestiere, si può cominciare presentando i risultati di un’indagine su quanti siano a svolgerlo, per esempio nel nostro paese. Se il mestiere filosofico coincidesse con quello di insegnare la filosofia, tra docenti universitari e liceali il numero sarebbe piuttosto elevato. Aggiungendo un certo numero di outsiders, consulenti e intellettuali, si otterrebbe una bella legione di professionisti del mestiere di pensare. Ma è chiaro che Enrico Petris, con questo esordio ironico e apparentemente estemporaneo, non vuole semplicemente presentare una statistica, per quanto questa mossa non sia neppure solo un effetto di sorpresa. Sono forse un po’ troppi? Dal punto di vista della filosofia analitica, il criterio certamente non sarebbe significativo. Per Diego Marconi, pochi filosofi italiani esercitano davvero il mestiere di pensare, figuriamoci i semplici insegnanti! Il titolo del seminario riprende appunto, con una piccola ma significativa modifica, quello del libro di Diego Marconi, Il mestiere di pensare. Testo interessante, che Petris mostra di apprezzare, ma che usa solo come un punto di partenza.
Si tratta di capire che cosa distingua il filosofo analitico dagli altri filosofi. Si scopre che esistono diverse definizioni della filosofia analitica. Per Sellars essa si caratterizza per il riferimento imprescindibile alla scienza. Allora in effetti si deve ammettere che c’è poca filosofia in Italia. Secondo Uberto Scarpelli la filosofia analitica ha un rapporto particolare con la verità: impegna chi la pratica a credere in quello che fa e a esercitare la critica al massimo livello possibile. Un altro tratto specifico è la diffidenza verso la storia della filosofia. Il filosofo analitico si occupa di problemi recenti e sottopone le sue soluzioni al controllo pubblico. Però Isaiah Berlin, autore di formazione analitica, ha scelto di dedicarsi alla storia delle idee. E ancora: il filosofo analitico lavora sui problemi, non sulle parole come tali. Non si fa catturare dal gioco delle etimologie. Oppure: il filosofo analitico ripudia la metafisica. Tuttavia quest’ultimo criterio, che pareva un discrimine sicuro, pare non reggere del tutto, dato che alcuni hanno riscoperto non solo Aristotele ma persino il tomismo. Con una seconda mossa a sorpresa Petris ci propone di sostituire la storia della filosofia con l’ufficio brevetti idee filosofiche. L’invenzione gli permette di lasciarsi alle spalle la questione della definizione e di stabilire raggruppamenti ed esclusioni piuttosto libere, ma non, come si vedrà, arbitrarie.
Si comincia a presentare lo “strano terzetto” formato da Ayer, Ryle e Austin, dei quali vengono illustrati i contributi più significativi. Per poi passare al trio Meillassoux – Sellars – Quine. Ma cosa ci fanno insieme questi ultimi? Mentre Meillassoux, filosofo francese dell’ultima generazione, ha elaborato una filosofia speculativa, basata sulla confutazione del correlazionismo e su una tesi realista forte, gli altri due hanno sempre detto il contrario, e cioè che noi non conosciamo mai direttamente gli oggetti. E, d’altra parte, perché ignorare personaggi come Popper e, cosa più grave, Wittgenstein?
Eccoci alla rivelazione finale: la scelta di analizzare proprio quei filosofi è dettata dal fatto che facevano parte dell’intelligence inglese e americana. Qui comincia un’altra storia, che viene raccontata facendo appello a fonti e documenti inoppugnabili, ma anche con lo strumento indiziario dell’analisi del linguaggio dei suddetti autori. Irresistibili le citazioni degli esempi addotti da Austin per far capire la differenza tra finzione e verità, o le regole per spiegare cosa significa “fare cose con le parole”, come suona il titolo della sua opera più nota: raccogliere informazioni, valutare la situazione, invocare dei principi, pianificare, controllare l’esecuzione. Che altro sono se non regole di intelligence?
Altri casi si potrebbero citare e la lista di filosofi-spie si allungherebbe, scavalcando non solo la barriera analitici-continentali ma anche quella di genere. Vi comparirebbero Bergson e Koyré, Marcuse e Kirchheimer e, tra le donne, Murdoch, Foot e Anscombe. Insomma, cosa ne ricaviamo? Petris mi sembra voglia dire che il mestiere di pensare, se inteso come un pensare puro, teorico, sia esso analitico o non analitico, non può essere l’unico o il vero mestiere. Chi pensa veramente fa il doppio lavoro, e il vero lavoro, il vero mestiere, non è quello del filosofo.
Ma c’è anche un altro risvolto: perché i filosofi sono stati tanto attratti dalle attività di intelligence? Perché questo fascino per i segreti e per le attività segrete? Dietro la superficie brillante e leggera di questa ricostruzione, un po’ romanzesca e un po’ no, mi pare si adombri un problema complesso: cosa tiene insieme la ricerca della verità, svolta con gli strumenti di un linguaggio pubblico e controllabile, con l’esercizio di un “secondo lavoro”, che è squisitamente un lavoro di pensiero, ma che si svolge in segreto ben oltre la necessità strategica della segretezza? Non sarà che la trasparenza inseguita dal filosofo, analitico soprattutto, è solo un lato della filosofia? Ma non sono sicura che questa domanda soddisferebbe il relatore, il quale forse la troverebbe ancora troppo tradizionalmente filosofica.
Beatrice Bonato