Claudio Tondo
Il gioco iconico della realtà e della verità
Intervento nell’ambito dell’iniziativa Le immagini e le cose. Sette itinerari critici (a cura di Flavia Conte)
Martedì 1 marzo – ore 18:00
Biblioteca Civica di Pordenone – Sala “Teresina Degan”
Presenza diffusa in una molteplicità di forme e usi, la famiglia estesa delle immagini modella il campo dell’esperienza umana, interrogando in un modo inedito la riflessione filosofica: in particolare, appaiono problematiche le relazioni che le immagini stabiliscono sia con la “realtà” (il mondo extra-iconico, “là fuori”, che vorrebbero rappresentare e a cui pretendono di somigliare) sia con la complessa tematica della verità, poiché, analogamente al linguaggio verbale, anche le immagini tendono a rendere veri, attestandone l’esistenza, fatti o eventi.
Le immagini contemporanee non sono né calchi della realtà, come vorrebbero i teorici del realismo, soprattutto fotografico e cinematografico (Siegfried Kracauer, André Bazin e Roland Barthes) e di cui la Sindone rappresenterebbe l’archetipo, né simulacri, che annullano la realtà nel gioco derealizzante della simulazione e della virtualità, come sostengono i teorici della postmodernità (Jean Baudrillard e Mario Perniola). Al contrario, le immagini che popolano il nostro presente – forse con esiti meno apocalittici e nichilistici – si limitano a integrare le nostre percezioni “naturali”, come suggeriscono i molteplici usi promessi dai dispositivi e dai programmi informatici di realtà aumentata, già operanti in aeronautica militare e civile, in chirurgia e, seppure in maniera per ora limitata, nella quotidianità delle nostre esistenze. Ci si muove dunque verso una forma mista dell’esperienza, in un territorio intermedio nel quale le “immagini” si sovrappongono, dialogano, coesistono e intridono le “cose”, così da incrementare il campo del visibile, fino a prospettare un regime tecnologico e impersonale dello sguardo orientato alla massima trasparenza e al controllo assoluto.
Le immagini “dicono” – anzi, mostrano – la verità? Non sempre, naturalmente: talvolta mentono o disorientano o “agiscono”, oppure alludono, nel loro silenzio, alla dimensione dell’invisibile “metafisico” e dell’eccedenza di senso. In alcuni casi, tuttavia, possono essere intenzionalmente impiegate come fossero delle asserzioni visive che consentono di constatare il vero e il falso a un livello di dettaglio che lo sguardo umano non può raggiungere. Certo, non si tratta di immagini che ossessionano e conducono alla follia, come nel caso di Aby Warburg, o che pungono, come in Roland Barthes, o addirittura che bruciano, come sostiene Georges Didi-Huberman, ma di rappresentazioni basiche, forse “banali”, che però aprono a un nuovo modo d’essere dell’immagine tecnologica. Come nel caso di alcuni sport (tennis, calcio, cricket) in cui l’“occhio di falco” (Hawk-Eye) di molte telecamere ad alta risoluzione rielabora l’invisibile, questa volta “percettivo”, di arbitri, atleti, spettatori e telespettatori per stabilire con un’autorità che non può essere contraddetta se, per esempio, una pallina da tennis è in o out rispetto alla riga che delimita il campo di gioco. O come nel caso di un film di finzione, Forza maggiore (Ruben Östlund, 2014), che mostra come la verità di un evento, con tutte le conseguenze psicologiche ed esistenziali che ne conseguono, sia definita da una registrazione casuale effettuata da uno smartphone, le cui immagini dissolvono ogni possibile conflitto delle interpretazioni. Già operante in ambito scientifico, la forza di veridicità dell’iconico estende il proprio raggio d’azione in ambiti che riconfigurano, con conseguenze ancora da valutare, il nostro agire quotidiano e, più in generale, lo stesso mondo della vita.