In un’intervista del 1967, alla domanda «Che cos’è per lei il cinema?», Dreyer rispose: «La mia unica grande passione». Nato a Copenaghen nel 1889, Carl Theodore Dreyer visse l’infanzia turbolenta di un orfano. In età matura iniziò la sua carriera creativa dapprima come giornalista, poi come sceneggiatore e, infine, come regista. Dal 1919, anno di uscita del suo primo film, al 1968, anno della sua morte, il nome di Dreyer entrò nella storia del cinema mondiale grazie a capolavori come La passione di Giovanna d’Arco (1928), Dies irae (1943), Ordet (1955) e Gertrud (1964), ma anche a film di genere, come horror (Vampyr – Il vampiro (1932)) e commedie (L’angelo del focolare (1925)). È il suo meticoloso stile registico a rendere ciascun film di Dreyer un dramma umano e personale: egli pone particolare attenzione al tempo della rappresentazione, il cui carattere meditativo lascia trasparire una tensione al trascendente e allo spirituale. Nel fare ciò, assume particolare rilevanza il montaggio; esso si distingue in due diversi momenti. In un primo periodo muto, che vedrà il suo compimento ne La passione di Giovanna d’Arco, è improntato verso un ritmo più serrato, il quale carica i primi piani di una forte potenza espressiva; nei suoi lavori più tardi, invece, il montaggio verrà ridotto all’essenziale: attraverso fluidi movimenti della cinepresa Dreyer si muove così all’interno dello spazio scenico, anch’esso ridotto allo stretto indispensabile, al fine di raggiungere una quanto più completa unità di spazio e tempo. Ed è in questa unità che la tragedia personale del personaggio/l’interpretazione dell’attore assume un’importanza totale. «Sono interessato alla sofferenza delle persone e, in particolare, alla sofferenza delle donne», affermò Dreyer in un’altra intervista. È così che il realismo psicologico e la tensione emotiva e spirituale convergono nella figura delle eroine dreyeriane, Giovanna d’Arco in primis, caricando i suoi film di una passione e di un’umanità mai egualmente impresse su celluloide.
Arturo Fabbro