Colloqui sull’individuo 2. 21 Febbraio 2016
LA DIFFERENZA INDIVIDUALE
Intervento di Francesca Scaramuzza
Commento al §XIII
La definizione della sostanza individuale come nozione completa è il punto di arrivo di una riflessione ormai matura, che stringe in un unico plesso tre differenti interessi del giovane Leibniz: quello teologico, quello logico e quello metafisico.
Nel testo che abbiamo letto, il §XIII del Discorso di Metafisica, la definizione logica della sostanza individuale è avanzata per risolvere il problema della predestinazione e della grazia, ma nel corso dell’opera sarà chiamata a innervare anche altre dimensioni, fornendo una spiegazione sia alla natura della conoscenza che a quella dei corpi.
Seguendo il principio del massimo risultato con il minimo dei mezzi, Leibniz cerca di donare, con una semplice ma potente definizione logica, soluzione a problemi diversi, ma questo tentativo crea una tensione dentro al testo del Discorso ben testimoniata dall’epistolario con Arnauld. Se la definizione logica della sostanza individuale si armonizza con la spiegazione della natura della conoscenza e della natura dei corpi, sono queste due che non si accordano fra loro.
Le disarmonie e le sconnessioni interne al pensiero di Leibniz sono state diversamente interpretate. Senza ripercorrere una storia delle letture di Leibniz, mi limito a indicare due diverse interpretazioni che possono costituire i due punti estremi di una forbice.
Innanzitutto propongo la tesi di Michel Fichant esposta in L’invention métaphysique, Introduzione a G. W. Leibniz, Discours de métaphysique. Monadologie, Gallimard 2004; La costituzione del concetto di monade in Monadi e Monadologie. Il mondo degli individui tra Bruno, Leibniz e Husserl, a cura di B. d’Ippolito, A. Montano, F. Piro; La dernière métaphysique de Leibniz et l’idéalisme, in «Bullettin de la Société française de philosophie», Vrin 2006.
L’interpretazione che Michel Fichant propone si articola attraverso una lettura che ricostruisce con attenzione la genesi del pensiero leibniziano e le esitazioni di questo pensatore a partire dai testi giovanili. Tale lettura è resa possibile dalla pubblicazione, relativamente recente e ancora incompleta, degli inediti leibniziani che ormai documentano con ampiezza il periodo precedente al Discorso. La convinzione di Fichant è che gli scritti di Leibniz ci pongano di fronte a un pensiero “in movimento”, in fieri, che si adatta all’interlocutore, si piega alle esigenze del problema trattato con un andamento duttile e cangiante. Fichant trova per questo motivo Leibniz stupefacente: è stupefacente vedere il pensiero che si fa.
Secondo Fichant, il dibattito con Arnauld fa esplodere le difficoltà implicite nel Discorso di Metafisica fra le differenti ottiche che vi si mescolano: è in particolare il problema della costituzione dei corpi e la nozione di forma sostanziale che creano difficoltà e confliggono con l’idealismo implicito nella visione dell’armonia prestabilita: “la nozione individuale interviene nel campo ‘storico’ e la forma sostanziale nel registro fisico” (L’invention métaphysique, cit., pp. 69/70). Leibniz viene spinto, dalle obiezioni di Arnauld, ad abbandonare la definizione logica di sostanza individuale come nozione completa per assumere quella di unità e di semplicità cioè quella di monade, anche se il termine ancora non compare. Il cambiamento è attestato dalla lettera ad Arnauld del 30 aprile 1687, nella quale si può dire che la natura prenda il sopravvento sulla storia.
La definizione della sostanza individuale come nozione completa sembra, secondo Fichant, essere come una meteora, perché già nel Système nouveau pour expliquer la nature des substances et leur communication entre elles, aussi bien que l’union de l’ame avec le corps l’argomento logico è abbandonato e con esso anche l’esemplificazione attraverso la storia. In questo scritto la sostanza non ha nomi propri così come non li avrà la monade.
[L’esitazione di Leibniz nell’esemplificare la nozione di sostanza individuale attraverso personaggi storici, viene ribadita da Fichant, appoggiandosi alla storia della redazione del Discorso che al § VIII esemplificava la qualità dapprima con l’accenno all’anello di Gyge, poi a quello di Policrate per giungere infine alla qualità di re di Alessandro Magno, L’invention métaphysique, cit. p. 62 e p. 36 del Discours de Métaphysique curato da Henri Lestienne, Vrin, Paris 1962, che riporta tutti gli strati della redazione del testo, incluse le varianti e le cancellazioni].
In secondo luogo avanzo la tesi logicista inaugurata da Bertrand Russell, esposta in A critical Expositon of the Philosophy of Leibniz, Allen and Unwin 1960, 1° ed. 1900. Questa tesi trova nella definizione logica della sostanza individuale ricondotta alla forma proposizionale praedicatum inest subjecto il nocciolo della filosofia di Leibniz, la parte notevole e interessante del suo pensiero. Le altre tesi, in primo luogo quelle contenute nella Monadologia, e che non si accordano con l’assunto logico, rischiano di abbandonare il terreno filosofico per scadere al livello di “un racconto di fate”, Preface, p. XIII.
Russell analizza il pensiero di Leibniz prescindendo da una prospettiva storica: non cerca infatti di ricostruire l’ambiente culturale dell’epoca, né cerca di seguire la genesi di una problematica attraverso un’analisi cronologica delle opere. Il pensiero di Leibniz viene analizzato in blocco come se facesse “sistema”, cosa che difficilmente si può sostenere, a dispetto dell’uso del termine che fa lo stesso Leibniz. I vantaggi di questo approccio astorico sono evidenti: discrepanze e contraddizioni vengono enfatizzate a favore di una chiarezza dimostrativa mentre si chiede la ragione di ogni incoerenza; gli svantaggi sono altrettanto palesi: quando le teorie non si armonizzano, Russell attribuisce queste sconnessioni alla sostanziale falsità di Leibniz che, in quanto cortigiano, era in obbligo di dire quello che faceva piacere ai suoi committenti. Alimenta in questo modo l’idea di due Leibniz: uno con “a good philosophy”, che tenne per sé; e uno con “a bad philosophy” che rese pubblica e per la quale venne apprezzato dai contemporanei.
La tesi logicista di Russell fu poi, con significative varianti relative alla forma dei giudizi, ripresa da Louis Couturat che la rinforzò attraverso la pubblicazione di importanti inediti grazie ai quali si ribadiva l’analiticità dei giudizi, riconducendo il principio di Ragion Sufficiente al principio di non contraddizione: se il principio di non contraddizione dice che ogni proposizione analitica è vera, il principio di Ragion Sufficiente dice che ogni proposizione vera è analitica.
Queste interpretazioni comunque concordano nel riconoscere che è impossibile chiudere il pensiero di Leibniz in un tutto coerente: ogni volta una prospettiva nuova ritaglia un percorso nel suo pensiero, riesce a ricostruire la freschezza di certe intuizioni, ma è impossibile trovare un punto di vista che ci restituisca senza contraddizioni l’intero pensiero leibniziano.
È tenendo conto di questa prospettiva che abbiamo scelto la citazione di apertura: “Si può dire in generale che l’ossimoro è la figura retorica che sovente meglio caratterizza il movimento del pensiero leibniziano.”, tratto da E. Pasini, Corpo e funzioni cognitive in Leibniz, FrancoAngeli, Milano, p. 157, nota 15. Sempre dal testo di Pasini citato, a p. 9, traggo il seguente passo:: “Alcune tra le principali peculiarità ‘strutturali’ della filosofia di Leibniz (e, in un certo senso, del suo ‘stile’ filosofico) sono ben rappresentate dalla vexata quaestio sulla sistematicità […]; e benché sia certamente legittimo dire che nel pensiero di Leibniz è possibile identificare una struttura generale unica, ogni sforzo di ricostruzione di un sistema leibniziano […] sconta limiti apparentemente invalicabili.”
Commento del § XIII
Il problema che pone il § XIII è quello della libertà e della predestinazione, cioè del bene e del male, della salvezza: nei due brani scelti si parla di Cesare e di Alessandro Magno, ma l’esempio ricorrente soprattutto nell’epistolario con Arnauld, è quello di Adamo, nel quale in seme si prefigura tutto ciò che ne discenderà; l’altro esempio portato al § XXX è quello di Giuda il traditore e del rapporto fra il tradimento e la morte di Cristo. Ci muoviamo dunque entro il grande tema della salvezza che si dispiega nell’ampio teatro della storia del mondo.
A chiamarlo scenario teatrale è lo stesso Leibniz. Il §XIII porta un’aggiunta, poi cancellata, in cui di Pietro si dice “che Dio gli ha imposto questo personaggio”; nel §XXXI si parla di personaggi “perché a Dio è piaciuto scegliere [questa persona] fra tanti altri personaggi possibili” e nell’epistolario con Arnauld si dice che le anime dei bruti “tornano sulla scena del mondo”, G. W. Leibniz. Die Philosophischen Schriften, Olms 1875/1965 a cura di K. I. Gerhardt – d’ora in poi Gerhardt – vol. II p. 99, Lettera ad Arnauld del 30 aprile 1687.
Il cuore del problema, il punto sensibile della riflessione di Leibniz sulla sostanza individuale è l’esistenza, che si presenta con uno statuto ambiguo, di non facile definizione. È innanzitutto una nozione semplice:
“L’esistenza è dunque una nozione semplice, ovvero non analizzabile”, De iis quae per se concipiuntur, Gerhardt vol. I p.271.
In quanto appercezione della nostra esistenza è la prima verità di fatto:
“L’appercezione immediata della nostra esistenza e dei nostri pensieri ci fornisce le prime verità a posteriori o di fatto, cioè le prime esperienze, come le proposizioni identiche contengono le prime verità a priori, o di Ragione, cioè le prime luci. Le une e le altre non possono essere provate e possono essere chiamate immediate; quelle, perché vi è immediatezza fra l’intendimento e il suo oggetto, queste, perché vi è immediatezza fra il soggetto e il predicato”, Nouveaux Essais IV, cap. IX, Gerhardt vol. V p. 415.
È una perfezione o un grado di maggior perfezione che coincide con la compossibilità:
“Dunque questo grado di grandezza e di perfezione, o meglio questa perfezione che consiste nell’esistenza, è in questo Essere Supremo tutto grande tutto perfetto: perché altrimenti sarebbe mancante di qualche grado, contro la sua definizione”, Nouveaux Essais IV, cap. X, Gerhardt vol. V, p. 418.
“L’Esistente può essere definito come ciò che è compatibile con il maggior numero di oggetti rispetto a qualsiasi altro oggetto incompatibile con esso”, Louis Couturat, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, 190, p.360.
Va sottolineato che l’esistenza non è un predicato e quindi, in rapporto alla definizione della sostanza individuale come nozione completa, non è inclusa nella nozione del soggetto: l’esistenza non modifica la nozione di sostanza individuale, che è già completa, ma è da questa deducibile?
Dal fatto che l’esistenza non abbia uno statuto chiaro, discendono infatti interpretazioni diverse del suo rapporto con la nozione completa.
Così, se partiamo dall’affermazione dell’analiticità della verità, praedicatum inest subiecto, possiamo dire che l’esistenza discende logicamente da quella definizione che esprimerà la maggiore perfezione, seguendo l’interpretazione che fa del principio di Ragion Sufficiente la conferma dell’analiticità di quei giudizi che, implicando l’infinito, non possono essere risolti da un essere finito.
La conseguenza di questo approccio è che l’universo diventa necessario: Leibniz non presenterebbe quindi che un altro esempio dello spinozismo. Abbiamo visto che questa è la tesi di Louis Couturat e il rischio che Russell intravvede nella filosofia di Leibniz.
L’ambiguità dello statuto dell’esistenza si riflette nelle difficoltà che stringono il pensiero di Leibniz che cerca, da un lato, di salvare la continuità fra il piano logico, inteso come pensabilità, e il piano metafisico, inteso come attualità dell’esistente – compito assolto dalla definizione dell’esistenza come la perfezione della complessità o compossibilità – ma è contemporaneamente consapevole che mantenere questa continuità è mortale per la libertà. Il rischio infatti è quello di fare di Dio un semplice spettatore nella lotta fra i possibili, uno spettatore senza possibilità di scelta.
La domanda su che cosa sia l’esistenza e come si giunga ad essa, sposta infatti la scena del teatro dal mondo della storia alla grande rappresentazione della lotta fra i possibili nella mente di Dio.
Questa immagine potente è nota: Dio pensa i possibili e sceglie fra questi il mondo che appare essere il migliore, poiché “l’Ente necessario è Esistentificante”, Gerhardt vol. VII, p. 289.
“[…] credo che riguardo alla nozione di una sostanza individuale si debba filosofare in modo diverso che riguardo alla nozione specifica di una sfera. È che la nozione di una sfera racchiude solo verità eterne o necessarie, ma la nozione di un individuo racchiude sub ratione possibilitatis ciò che è di fatto o che si pone in rapporto all’esistenza delle cose e al tempo e di conseguenza dipende da qualche decreto libero di Dio considerato come possibile: perché le verità di fatto o di esistenza dipendono dai decreti di Dio”, Remarques sur la lettre de M. Arnaud, Gerhardt vol. II p. 39.
Solo accogliendo in pieno le riflessioni di Leibniz sul possibile si può riconoscere la “leggerezza” del leibnizianesimo, ci si può allontanare da una interpretazione “spinozista”. È Martine de Gaudemar in Leibniz. De la puissance au sujet, Vrin, Paris1994, che invita a compiere questo passo riconoscendo come Leibniz lavori con finezza il concetto di possibile articolandolo in passaggi diversi: il possibile come pura non contraddizione; il possibile come pensabile, più ampio della non contraddizione, già tendente al compossibile, il possibile come esistenziabile, cioè come tendenza al massimo di compossibilità, come vis ad existentiam; e a questi significati differenti si deve aggiungere il possibile come potenza dei contrari, come possibilità di non fare: Dio può non fare, può non creare.
In altre parole solo salvando la discontinuità fra creato e increato si può cercare di mantenere salva la contingenza. Su questo punto con Arnauld c’è stato un dibattito aspro, dato che a questi sembrava assurdo che Dio creasse un mondo già determinato fin nei più piccoli dettagli, perché gli sembrava che Dio venisse vincolato dalla sua stessa opera; inoltre gli sembrava indegno di Dio che ci fossero in Lui dei possibili che non erano venuti all’esistenza e che Dio avesse una visione che avrebbe potuto non avere.
“È anche molto difficile spiegare perfettamente, come Dio abbia una scienza che avrebbe potuto non avere, che è la scienza della visione; perché se i futuri contingenti non esistessero per nulla, Dio non avrebbe alcuna visione”, Remarques sur la lettre de M. Arnaud, Gerhardt vol. II p. 44.
“E se si volesse rifiutare del tutto i puri possibili, si distruggerebbe la contingenza; perché se niente è possibile se non ciò che Dio ha effettivamente creato, ciò che Dio ha creato sarebbe necessario nel caso in cui Dio abbia deciso di creare qualcosa”, Remarques sur la lettre de M. Arnaud, Gerhardt vol. II p. 45.
Se si accetta la discontinuità fra creato e increato, che cosa cambia l’esistenza reale rispetto alla pura nozione della logica?
L’esistenza dà un soggetto alla nozione che da puro pensabile, diviene potenza di agire, forza primitiva, virtualità in grado di dispiegare i propri attributi, cioè di trasformarsi. “Si può dunque dire che la potenza in generale è la possibilità del cambiamento”, Nouveaux Essais II, cap. XXI, Gerhardt vol. V p. 155. L’esistenza posiziona il soggetto rendendo così concreta la prospettiva del punto di vista attraverso il quale la singolarità mantiene in sé le tracce di tutto ciò che avviene nell’universo trasformandolo a sua volta.
Commento alla lettera di Leibniz ad Arnauld datata 4/14 luglio 1686 e alle Remarques sur la lettre de M. Arnaud
L’esistenza ha un rapporto con il tempo e con la venuta all’atto, ma quale rapporto?
Solo nel caso dell’approdo all’esistenza si può parlare dei possibili come in potenza secondo la tradizione aristotelica. I possibili infatti sono determinati e non hanno quindi la stessa posizione della materia prima che, secondo Aristotele, attende una forma che la determini.
Ma quale legame collega esistenza e tempo?
In più luoghi Leibniz dice che l’esistenza non è il tempo, ma che ha a che fare con il tempo.
Nel dibattito con Weigel in Animadversionem ad Weigelium, Leibniz nega che l’esistenza sia il tempo, ma questa negazione mentre colpisce l’esistenza temporale degli occasionalisti fatta di istanti discontinui, presenta il tempo come un continuum che cresce su se stesso, e che è gravido del futuro poiché mantiene le tracce di tutto ciò che è avvenuto. Così, pur non coincidendo, tempo ed esistenza compaiono profondamente intrecciati, perché la potenza del soggetto storico si concretizza nella capacità di cambiamento e si attua come tensione che mantiene memoria del passato e cova in sé il futuro.
“il presente è gravido dell’avvenire, il futuro si potrebbe leggere nel passato, ciò che è lontano è espresso in ciò che è vicino. Si potrebbe conoscere la bellezza dell’universo in ogni anima, se si potesse dispiegare tutte le sue pieghe, che si aprono in modo visibile solo con il tempo” in Principes de la Nature et de la Grâce fondés en Raison, Gerhardt vol. VI p. 604 (v. anche Lettera ad Arnauld 30 aprile 1687, Gerhardt vol. II p. 98; Monadologie 22, Gerhardt vol. VI p. 610; Lettera a De Volder, Gerhardt vol. II p. 251; Lettere a Bayle, Gerhardt vol. III p. 66; Animadversionem ad Weigelium in Nouvelles lettres et opuscules inédits de Leibniz (1646-1716), précédés d’une introduction par A. Foucher de Careil, 1857, p.160).
Queste affermazioni mi sembrano allargare la definizione classica che Leibniz dà dello spazio e del tempo, difesa soprattutto nell’Epistolario con Clarke, come relazioni, ordini della coesistenza e della successione, fenomeni ben fondati ma di natura mentale, che in quanto tali appartengono ai possibili come agli esistenti. Vedi Ezio Vailati, Leibniz and Clarke, Oxford University Press, Oxford and New York 1997, in particolare p.122.
Si potrebbe pensare che il presente gravido dell’avvenire sia il tempo della storia e dell’anima che Leibniz intravvede ma al quale, al di là di questi brevi cenni, non dà uno spazio teoretico adeguato.
Certamente la funzione del tempo nella costruzione dell’identità è chiaramente indicata nei testi che abbiamo letto e male si adatta all’idea che il tempo sia una semplice relazione di successione: l’identità e la memoria sono il tempo stesso dell’anima, la strutturano e ne fanno parte come l’accenno all’immortalità rende chiaro. È attraversando il tempo che la certezza dell’identità si costruisce in modo così profondo che la memoria del passato non sarà mai distrutta.
Si può dunque dire che l’esistenza, indefinibile in quanto nozione primitiva, ha il potere di cambiare profondamente il senso della nozione individuale ricevuta dalla logica.
E allora possiamo concludere dicendo che porsi dal punto di vista dell’esistenza può rovesciare l’ottica della domanda. È a partire dal concreto, dal qui e ora, dal tempo, che con uno sguardo retrospettivo interroghiamo il desiderio di esistenza Dio e chiediamo: in generale perché l’essere e non il nulla?
Commento al § IX e al § XXXIII
In queste brani si rende evidente come la teoria di una sostanza individuale come nozione completa venga a innervare la spiegazione della vita psichica e la costituzione dei corpi, dando vita, da un lato a una teoria della conoscenza e dall’altro a una teoria del rapporto fra anima e corpo. Questi due blocchi teorici però presentano delle incongruenze, come si accennava sopra.
Fichant ne L’invention métaphysique, cit, p.74 ricorda che Catherine Wilson (Leibniz’s Metaphysics: A Historical and Comparative Study) sostiene che vi siano tre metafisiche in Leibniz: una metafisica ‘A’, della sostanza individuale come nozione completa; una metafisica ‘B’ della forma sostanziale di origine scolastica che si legittima del concetto di forza; un metafisica ‘C’ dell’espressione e dell’armonia, dottrina idealistica e fenomenista “dalle risonanze malebranchiane”. Wilson osserva che mentre ‘A’ è compatibile con ‘B’ ed è pure compatibile con ‘C’, ‘B’ e ‘C’ non sono in accordo fra loro.
Il § IX che espone la dottrina delle sostanze individuali come specchio dell’universo espone il prospettivismo leibniziano, rispetto al quale mi limiterò ad alcuni brevi spunti, rimandando all’articolo di Antonio Somaini, Prospettiva geometrica e prospettiva metaforica in Leibniz in Monadi e Monadologie. Il mondo degli individui tra Bruno, Leibniz e Husserl. Atti del Convegno internazionale di Studi, cit.
Somaini ricorda come il riferimento alla prospettiva in quanto elemento teorico importante fosse un modulo tipicamente barocco. È Panofsky a sottolineare la tensione che c’è nella prospettiva fra la restituzione oggettiva del reale e il punto di vista soggettivo, questione che emerge in alcuni autori rinascimentali e in Descartes, Pascal, Malebranche. In Leibniz la prospettiva geometrica assume un forte carattere metaforico grazie al concetto di espressione. Le sostanze individuali infatti non rappresentano ma esprimono l’universo, richiamando alla mente l’anamorfosi, che è anch’essa un portato della sensibilità barocca.
“Non è necessario che ciò che pensiamo delle cose fuori di noi, somigli loro perfettamente, ma che le esprima come un’Ellisse esprime un cerchio visto di traverso”, Lettera a Foucher, Gerhardt vol. I p.383.
“Direi piuttosto che c’è un tipo di somiglianza non totale e per così dire in terminis, ma espressiva o di rapporto d’ordine; come un’ellisse o pure una parabola o un’iperbole somigliano in qualche modo al cerchio di cui sono la proiezione sul piano: poiché vi è un certo rapporto esatto e naturale tra ciò che è proiettato e la proiezione che ne viene fatta, ciascun punto dell’uno corrispondendo secondo una certa relazione a ciascun punto dell’altra” in Nouveaux Essais IV, cap. VIII, Gerhardt vol. V, p. 118; vedi anche Lettera ad Arnauld 9 ottobre 1687, Gerhardt vol. II p.112.
La teoria dell’espressione si pone contro Cartesio che considerava arbitrarie le sensazioni, che hanno invece una relazione analogico-espressiva sia con l’oggetto sensibile che con le modificazioni corporee, mentre costruiscono un continuum con il pensiero
Secondo la lettura di Gilles Deleuze, la visione prospettica “non è una variazione della verità a partire dal soggetto, ma la condizione per cui appare al soggetto la verità di una variazione.”, La piega, Einaudi, Torino 1990, p.29
La verità come corrispondenza diventa allora del tutto virtuale e in questo caso il termine virtuale prende la connotazione dell’incompiutezza e della indimostrabilità. La corrispondenza è l’atto creatore di Dio che fonda l’armonia prestabilita, è cioè un postulato. In ultima analisi, noi non ci rappresenteremo mai con esplicita chiarezza l’universo, ma solo in modo confuso e implicito, perché lo traguardiamo da un punto di vista e sarebbe impossibile fare altrimenti. (Pasini, Corpo e funzioni cognitive in Leibniz, cit., pp.127/9)
Il § XXXIII chiarisce come il punto di vista esprima l’ancoraggio dell’anima al corpo, che è situato e situa e porti con sé l’infinito delle piccole percezioni confuse. Queste hanno una funzione molto importante perché legano, creando un tutto continuo, sensazione/immaginazione/intelletto/idee innate. Anche il legame fra percezione e appetizione, conoscenza e volontà viene creato dalle piccole percezioni confuse, che donano alla potenza e alla forza quel carattere pratico tipico della visione leibniziana. Mentre permettono di ribadire l’impossibilità di scindere il legame con il corpo: ogni pensiero ha una traccia nel corpo.
“Penso che non vi possa essere alcuna intellezione pura, senza una qualche rispondenza nel corpo”
in Pasini, Corpo funzioni cognitive in Leibniz, cit., p.194
“Pongo un rapporto esatto fra l’anima e il corpo, e credo che anche i pensieri più astratti siano presenti in qualche traccia nel cervello […]; come credo che anche i movimenti meno volontari del corpo, non trascurino di lasciare impressioni sull’anima, anche se non ce ne accorgiamo per nulla” Lettera alla Regina Sofia Carlotta, Gerhardt vol. VI p.514.
E infine, il corpo organico è costituito di infinite parti, che si suddividono all’infinito senza che ciascuna di queste parti abbandoni la caratteristica che la qualifica. È questa struttura che distingue il corpo organico, o l’organismo vivente, dagli aggregati privi di vera unità, perché in questi ultimi le parti appaiono prive delle qualità che caratterizzano la struttura tipica dell’insieme. Secondo Michel Fichant è l’attenzione al problema del corpo che pone un limite all’idealismo leibniziano. Vedi La dernière métaphysique de Leibniz et l’idéalisme, cit.