INDIVIDUI E PERSONE Intervento di Claudio Freschi

FLORA 3Intervento a Colloqui sull’individuo 5         22 maggio 2016

Il «bene comune di persone umane» come autentico fine della società secondo J. Maritain: fondamenti, recezioni e risvolti attuali.

di Claudio Freschi

Ascoltate le considerazioni di Luca Grion sul concetto maritainiano di persona vediamo, anche alla luce del testo ora letto, qual è la prospettiva di Jacques Maritain sul bene comune, su quali presupposti si fonda, quali obiezioni sono state mosse in proposito, quali risposte date a queste obiezioni, quale rilevanza può ancora avere la formula del «bene comune di persone umane», e in particolare la critica maritainiana dei riduzionismi, rispetto ad alcune contraddizioni del rapporto individuo/società nell’era globale e agli attuali orizzonti di comprensione di tale problematica.

Con Aristotele e Tommaso d’Aquino Maritain afferma il carattere essenzialmente sociale della persona, che esige di essere membro di una società anche in ragione dei bisogni che derivano dalla sua individualità materiale, ma in primo luogo in virtù delle perfezioni stesse che le sono proprie, della sua specifica vocazione alla conoscenza e all’amore.

Ne deriva una mutua implicazione delle nozioni di persona e bene comune e, così, la tesi del «bene comune di persone umane» come autentico fine della società. Il bene comune è dunque tale se implica i diritti e i caratteri fondamentali della persona e se favorisce il massimo sviluppo possibile di ciascuna persona nelle diverse dimensioni del suo essere proprio.

Pertanto, esso non può consistere solo nell’assicurazione ai singoli dei beni necessari per la vita materiale, ma anche in un’esistenza giusta e moralmente buona della comunità.

Un altro nodo da cogliere nel testo è quello della trascendenza della persona rispetto allo stesso orizzonte del bene comune sociale, in ragione del suo rapporto con Dio e della sua chiamata alla vita eterna come suo fine ultimo. Di qui una relazione specifica, che prevede insieme la superiorità del bene comune sociale rispetto al bene dell’individuo materiale e, viceversa, la superiorità dell’uomo in quanto persona rispetto alle esigenze della vita sociale:« la persona umana – leggiamo ancora nel testo in esame – s’impegna tutta come parte della società politica, ma non in virtù di tutto ciò che è in lei e di tutto ciò che le appartiene. In virtù di altre cose che sono in lei, essa è anche tutta al disopra della società politica […] L’uomo sorpassa la comunità politica secondo le cose che […] in quanto relative all’ordinazione all’assoluto della personalità come tale, dipendono, quanto alla loro stessa essenza, da più in alto che la comunità politica, e concernono in proprio il compimento – sopra-temporale – della persona proprio in quanto persona» (J. Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 44-45).

Così, il bene comune autentico implica il riconoscimento di una ‘extraterritorialità’ della persona nel suo orientamento essenziale alla comunione con Dio: di quell’elemento spirituale che, in lei, sorpassa la società stessa.

Di qui la critica maritainiana delle implicazioni sociopolitiche di una filosofia materialistica che, in quanto discerne solo l’individuo materiale, non può che essere, a suo avviso, riduzionistica e non idonea alla costruzione di una società veramente umana. Abbiamo sentito come questo riduzionismo si esprima, a giudizio di Maritain, sia nel liberalismo borghese, che riduce il bene comune a garanzia della collezione di beni privati di un individuo assolutizzato nella sua libertà, sia nel comunismo, che nonostante la sua volontà di opporsi alla disumanizzazione della persona intende la liberazione in termini collettivi e non personali; quanto al totalitarismo nazista, esso è assunto sin da subito come un sistema deliberatamente contrapposto alla realtà della persona.

Pertanto il bene comune si può realizzare solo, per Maritain, in una società comunitaria (perché il suo fine è, appunto, il bene comune stesso), personalistica (perché riconosce il bene comune temporale come fine infravalente rispetto al fine ultimo della persona) e pluralistica (perché fondata anche sul riconoscimento di una pluralità di soggetti economici, culturali, religiosi, e insieme contraria a ogni forma di assolutizzazione dello Stato e della politica come «tutto»).

In Umanesimo integrale Maritain parla anche dell’«ideale storico concreto» di una « nuova cristianità», diversa dalla precedente cristianità medievale in cui le istituzioni religiose erano normative per quelle civili, ma nella quale tuttavia la fede cristiana opera come ispiratrice di valori condivisibili, con altre motivazioni, anche dalla cultura laica. Il filosofo francese parla anche di uno «Stato laico cristiano» in cui, in un regime di pluralismo culturale e confessionale, la costituzione  riconosce comunque il carattere universale di determinati valori evangelici [J. Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Roma 1974 (OC VI, pp. 289-634); sui punti qui considerati cfr. in particolare, ivi, le pp. 437-456 e 527-575].

Com’è già emerso, tutta questa prospettiva poggia su alcuni chiari presupposti, a cominciare dall’assunto aristotelico-tomista della possibilità di cogliere la realtà oggettiva nella sua verità essenziale. In particolare, con riferimento al tomismo, Maritain afferma un’ontologia della persona come essere essenzialmente spirituale, creata da Dio e orientata essenzialmente a Dio e nella cui  natura è anche insita la finalità del suo agire secondo il proprio bene essenziale; riconosce contestualmente una legge naturale fondata sulla legge eterna e tale da essere assunta come fondamento del diritto.

Quali obiezioni sono emerse rispetto a questa impostazione?

Nell’orizzonte della filosofia contemporanea, caratterizzata prevalentemente in senso antimetafisico (o postmetafisico), si è chiaramente espressa una presa di distanza dall’idea di una conoscibilità della natura umana, dell’esistenza stessa di una natura umana o, comunque, di un’assunzione della natura umana con riferimento a un essere trascendente.

Di conseguenza è emersa una critica della plausibilità di un discorso politico fondato a partire dall’idea di un essenza dell’uomo e tale da incorporare l’idea di un vero bene dell’uomo stesso:  «la verità – afferma per esempio Richard Rorty –  non è rilevante per la democrazia politica. E così la filosofia, come spiegazione delle relazioni esistenti tra un ordine antecedente a noi dato e la natura umana, non è a sua volta rilevante» (R. Rorty, La priorità della democrazia sulla filosofia, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia ’86, Laterza, Bari 1987, p.43).

Senza alcun bisogno di presupposti metafisici, l’esigenza prioritaria della democrazia resta infatti, per il filosofo americano, quella di riconoscere pragmaticamente il sentimento e la volontà comuni alla maggioranza dei cittadini e di corrispondervi. Su questa stessa linea anche Gustavo Zagrebelsky dichiara che riferirsi alla verità come fondamento della democrazia – affermando ad esempio l’idea di un’antropologia essenziale in grado di fondare i valori che la società dovrebbe poi garantire –  significa generare conflitti e pretese di egemonia di una parte sull’altra. Occorre dunque, secondo lui «neutralizzare la forza antidemocratica della verità […] occorre che tutte le convinzioni e le fedi […] si trasformino in opinioni quando diventano pubbliche nel rapporto degli uni con gli altri » (G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità, Roma-Bari, Laterza 2009, p.164; rispetto a questa discussione tengo presente anche L. Grion, Divisi dal bene comune, in F. Pizzolato e P. Costa (a cura di), Il lato oscuro della sussidiarietà, Giuffrè, Milano 2013, pp. 1-27).

Hans Kelsen ritiene anzi che uno Stato fondi il suo carattere democratico proprio sul relativismo: secondo lui, infatti, chi esprime  una sicurezza assoluta nei fondamenti delle proprie convinzioni tende a imporle agli altri. Inoltre, a giudizio di Kelsen, la dignità della persona è meglio rispettata in un ordine sociale democratico, che garantisca l’autonomia politica, piuttosto che « in un ordine religioso basato sul principio dell’eteronomia, vale a dire sul principio che un uomo religioso è soggetto ad una legge alla cui creazione egli non ha alcuna parte» (H. Kelsen, I Fondamenti della democrazia, Il Mulino, Bologna 1966, p. 322).

Anche John Rawls imposta il problema di un assetto sociale giusto evitando ogni riferimento a presunte verità metafisiche sull’uomo, orientandosi invece a definire le condizioni di un accordo attraverso il dialogo. Valore prioritario è la libertà dei soggetti, da garantire in modo proceduralmente giusto, così da assicurare a ciascuno «un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p.255).

Laddove, come si vede, l’istanza universalistica viene trasferita dal «bene proprio dell’uomo» al «giusto», alla giustezza delle procedure.

Così, negli autori considerati, la rinuncia a una presunta verità antropologica che pretenda di indicare la natura dell’uomo in quanto uomo e, perciò, il suo bene proprio come fondamento di legittimità delle norme, appare un requisito necessario per assicurare adeguatamente a una società libertà e democrazia.

Quali possibili risposte alle obiezioni a un’impostazione del problema del bene comune nei termini espressi da Maritain?

Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se l’istanza universalistica implicita nel concetto di giusto possa essere veramente disancorata da una ricerca, a un livello più radicalmente ontologico, di un «bene dell’uomo» colto in qualche modo nella sua dipendenza da ciò che l’uomo è come tale: in altre parole, se la rilevanza universale di certi principi di giustizia (pensiamo ad esempio alla «regola d’oro» di «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te») non rimandi ad alcune oggettive costanti antropologiche, discernibili al di sotto delle differenziazioni storico-culturali (cfr., sul tema, W. Pannenberg, Fondamenti dell’etica. Prospettive filosofico-teologiche, Queriniana, Brescia 1998, in particolare le pp. 73-105).

Su un altro versante, la pretesa che un soggetto partecipi a un discorso politico neutralizzando la sua identità appare problematica: nessuno può cessare di essere se stesso, per quanto possa dover ammettere di non essere in grado di dimostrare «erga omnes» la verità di alcune convinzioni ultime, ad esempio religiose. Ancora più debole appare l’idea che essere portatore di determinati punti di vista metafisici implichi di per sé un orientamento a imporli anche agli altri: Maritain ha contraddetto a più riprese questo assunto, obiettando plausibilmente come la convinta assunzione di una  concezione del mondo sia perfettamente compossibile con un dialogo rispettoso, fondato esclusivamente sulla forza di argomentazioni razionali.

Se è vero che il pensiero di Maritain continua a interrogarci,  come indica Beatrice Bonato nel foglio di presentazione, proviamo a allora a chiederci quale rilevanza possa ancora avere la sua assunzione del bene comune come  «bene di persone umane», e, in particolare, la sua critica dei riduzionismi, rispetto sia alle  contraddizioni contemporanee del rapporto individuo/società sia all’attuale orizzonte di comprensione delle stesse.

È senz’altro vero che l’affermazione della dignità assoluta della persona umana e del bene comune  possa oggi essere  formulata anche con un linguaggio filosofico diverso da quello adottato da Maritain: penso ad esempio a come Karl Rahner tematizza la trascendenza dell’essere umano secondo un metodo antropologico-trascendentale, includendo nel suo discorso teologico elementi mutuati anche da Kant e da Heidegger. Com’è vero che la prospettiva maritainiana di una «nuova cristianità» è apparsa sin da subito a vari intellettuali anche cattolici, come Emmanuel Mounier e Pietro Scoppola, legata all’idea di una rilevanza e centralità delle visione cristiana del mondo che non può più darsi nel contesto socioculturale contemporaneo.

Però la «cosa» espressa da Maritain, l’idea di un’irriducibile dignità dell’essere umano che non tollera riduzioni e di una società al servizio di questa, nonché l’ istanza  di un trascendimento, proprio a partire dalla trascendenza dell’essere umano, di un sistema di rapporti riduttivo della sua dignità verso un bene comune che contempli insieme giustizia nelle relazioni e autenticità della persona, è un’idea sempre feconda a cui attingere, rimodulandola entro le pieghe delle contraddizioni e dei linguaggi dell’era globale.

Si può indicare come esempio attuale di riduzionismo una dinamica contraddittoria tipica delle cosiddette affluent societies, richiamabile sotto il termine di «individualizzazione», usato da sociologi come Ulrich Beck o Zygmunt Bauman per designare una condizione insieme di empowerment e di isolamento degli individui: si potrebbe, anzi, parlare di «paradosso dell’individualizzazione».

In Occidente, infatti, la libertà di scelta dell’individuo, la sua discrezionalità rispetto alle più varie decisioni sulla propria vita e sulle proprie relazioni sembrano aver avuto una dilatazione senza precedenti, affermandosi nelle società industriali avanzate – come nota tra gli altri Eric Hobsbawm nel Secolo breve – l’idea che realizzare se stessi significhi esercitare un’illimitata libertà individuale nella gratificazione dei propri desideri, e facendo addirittura parlare di «società degli individui» (Norbert Elias). Ma sull’altro versante   «individualizzazione» significa affidamento a se stesso di un essere umano sempre meno garantito e sempre più precarizzato, svincolato da appartenenze forti e che influisce sempre di meno sulle condizioni (magari transnazionali) del suo lavoro e del suo reddito.

«Incertezza» è, secondo Bauman, la parola-chiave per riassumere la condizione dell’individuo-persona nella nostra società: laddove non solo nessun posto è garantito e la precarizzazione del lavoro spesso impedisce che un’attività lavorativa si componga in forma continua, ma non sono nemmeno sicure le aspettative private: le stesse relazioni affettive, in una «società liquida», sono fragili, non offrono alcuna garanzia di durata. Dal freudiano «disagio della civiltà» siamo passati, secondo Bauman, al simmetrico «disagio della postmodernità»: quello di una libertà senza sicurezza, che si sostituisce alla precedente sicurezza senza libertà, senza che sia possibile garantire una felicità maggiore (cfr. Z. Bauman,  Il disagio della postmodernità, Introduzione a La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 7-26).

In questi termini il riduzionismo nei confronti del  «bene comune di persone umane» indicato da Maritain appare chiaramente riproporsi nella forma di un individuo/persona sempre più individualizzato/atomizzato, in relazioni sempre più «liquide», precarizzate e consumistiche, riproponendosi la questione di un benessere autentico per le persone, riferito a tutta la complessità delle loro dimensioni e relazioni.

Ma in quale orizzonte di comprensione si pone, oggi, il problema del bene comune?

Abbiamo considerato la reciproca implicazione, per il filosofo francese, del discorso su bene comune e sviluppo integrale della persona, a partire dal riconoscimento di una sua dignità assoluta, dal suo orientamento essenziale al Trascendente e, pertanto, di una sua irriducibilità a ogni interesse, potere, ideologia, ruolo sociale.

Va aggiunto come, per Maritain, la questione del bene comune assuma anche una dimensione planetaria, espressa con molta chiarezza nello scritto Possibilità di cooperazione in un mondo diviso (1947), che riporta il discorso di apertura della Seconda Conferenza Internazionale dell’UNESCO (Città del Messico, 6 novembre 1947): è il periodo in cui Maritain collabora anche alla preparazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU.

Precondizione di una pace giusta e duratura è infatti, per il pensatore francese,  «che la nozione di sovranità nazionale assoluta venga abbandonata e che i rapporti tra le nazioni vengano non più dai trattati, ma dalla legge» (J. Maritain, Possibilità di cooperazione in un mondo diviso, in H. Joas, Persona e diritti umani. Princìpi, istituzioni e pratiche di vita, Meudon, Centro Studi Jacques Maritain 2011, pp. 45-68, p. 51).

Tesi sempre più attuale, visto che nell’era della mondializzazione diventiamo ogni giorno più consapevoli di un’interdipendenza globale, di un mondo sempre più interconnesso, in cui l’umanità intera sta diventando una «comunità di destino» (Edgar Morin) e le cui grandi  questioni (dalle guerre alle migrazioni, dalle disuguaglianze alle crisi economiche, alla sostenibilità ambientale) sono inesorabilmente intrecciate e possono essere affrontate solo a un livello transnazionale.

Così, anche alla luce dell’esperienza di oggi, il bene comune sembra assumere una dimensione insieme globale e integrale, cioè tale da coinvolgere, inestricabilmente, la giustizia nei rapporti fra i popoli, la sostenibilità ambientale e la dignità irriducibile delle persone contro ogni rischio di manipolazione.

Quali significative direzioni si possono individuare allora nell’attuale orizzonte, rispetto a un orientamento verso un bene comune integrale (o comunque venga nominato)? E in che rapporto con la riflessione di Maritain o, più in generale, con una determinata visione metafisica della realtà e della persona?

Mi devo per forza limitare ad alcuni flash.

Prima di tutto, in un’epoca di conflitti terribilmente gravi e drammaticamente irrisolti in varie aree del pianeta, spia di squilibri e disuguaglianze abissali come di una malcelata competizione globale per le risorse e con un impatto devastante sulle popolazioni civili, mi sembra significativo l’attuale proposito del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU di riconoscere con una Dichiarazione il Diritto alla Pace come diritto fondamentale delle persone e dei popoli. Ci si può certo chiedere quanto rilevi, attualmente, l’azione dell’ONU nei diversi scenari e quanto tale riconoscimento possa andare oltre il suo pur indiscutibile valore simbolico…

In termini altrettanto plausibili è stato affermato il primato di un’ ecologia umana e ambientale rispetto agli imperativi insostenibili di una crescita illimitata, ciò che Serge Latouche ha declinato nei termini di una « decrescita serena».

Un altro aspetto spesso riaffermato nella direzione di un bene comune globale è l’esigenza di un primato della politica, di una più efficace governance di determinati processi ad opera delle istituzioni sopranazionali, che sappia contrastare una deregulation funzionale al dominio della finanza globale, laddove il marxiano « feticismo delle merci» diventa il feticismo dei capitali finanziari, che travolgono nel loro flusso il mondo economico con l’apparente legalità naturale di un movimento di cose. Anche a questo proposito ci si può domandare quale possa essere, allo stato attuale, l’efficacia dell’azione di tali istituzioni rispetto alle dinamiche dei  «poteri forti».

Un’ulteriore dimensione del bene comune di individui/persone nell’età globale è chiaramente identificata nella tutela della loro integrità e autenticità, della loro trascendenza spirituale (si direbbe in linguaggio religioso), del loro diritto a essere se stesse di fronte a ogni possibile forma di manipolazione tecnologico-mediatica della loro identità: ciò che pone anche il problema di come far crescere la consapevolezza del carattere inautentico di processi indotti in apparente sintonia con i desideri e le aspirazioni dei soggetti-target.

Altrettanto notevole, nella stessa direzione, è oggi il tentativo di intellettuali come Amartya Sen e Martha Nussbaum di riattualizzare una serie di diritti in termini di «capacità funzionali umane fondamentali» da garantire a tutti gli esseri umani. Ad esempio, attingendo alla lista di Martha Nussbaum: la vita, la salute, e integrità fisica, lo sviluppo ottimale dei sensi, dell’immaginazione, del pensiero, dei sentimenti, del senso etico, il controllo dell’ambiente, la garanzia di inclusione e appartenenza, di un positivo rapporto con la natura e con le altre specie, del gioco… (cfr. M. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino, Bologna 2001, in particolare le pp. 90-105).

Lista rispetto a cui è possibile, secondo Martha Nussbaum, un consenso universale, sia pur con  differenti interpretazioni nei diversi contesti culturali: senza che sia necessario accettare «alcuna particolare interpretazione metafisica del mondo, o una visione globale etica o religiosa, e neppure una particolare concezione della persona o della natura umana» (M. Nussbaum, Diventare persone, cit., p. 95).

Un analogo orientamento verso una convergenza universalistica verso un bene comune di tutti gli uomini e donne di buona volontà, comunque culturalmente situati, è presente nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco: un testo che cerca di definire – nella loro connessione – determinati criteri della salvaguardia dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile dell’umanità e di un benessere autentico per la vita degli esseri umani, muovendo certo da una comprensione cristiana dell’uomo e del mondo e comunque rivolgendosi  «a ogni persona che abita questo pianeta» [Francesco, lettera enciclica  Laudato si’ (24 maggio 2015) sulla cura della casa comune, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015, p.28].

L’enciclica riattualizza la problematica del bene comune (pure il clima e l’acqua potabile sono definiti come tali), declinandolo anche come una «ecologia integrale»: non solo ambientale, ma anche economica, sociale, culturale e della vita quotidiana, essendo sempre strettamente intrecciati fra loro i problemi della sostenibilità ambientale e della giustizia nei rapporti tra i popoli, nonché l’imperativo categorico di «trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi» (Francesco, lettera enciclica  Laudato si’, cit., p. 147).

Ispirato certamente da una visione cristiana del mondo, il testo di Papa Francesco usa tuttavia espressioni etico-politiche condivisibili in diversi orizzonti di comprensione culturale: si denomina, ad esempio,  «enciclica sulla cura della casa comune», auspica una nuova  « alleanza tra l’umanità e l’ambiente» (senza necessariamente riferirsi al termine «creato»), così come utilizza alternativamente i termini «persona» e «essere umano».

Fa vedere insomma, come nel caso di Martha Nussbaum, l’attualità di una tesi affermata perentoriamente da Jacques Maritain nel citato testo sulle Possibilità di cooperazione in un mondo diviso: quella di una  possibile convergenza pratica di tutte le persone di buona volontà su principi di azione comunemente condivisi per un bene comune, astraendo dalle rispettive modalità di fondazione di questi principi  (J. Maritain, Possibilità di cooperazione in un mondo diviso, cit., cfr in particolare le pp. 59-68).

Cercando di delineare, alla luce di quanto precede, una conclusione provvisoria del discorso, direi che nell’orizzonte filosofico-culturale del mondo contemporaneo le questioni del bene comune e dell’ autenticità della vita umana risultano sempre decisive, anche se vengono formulate in termini spesso diversi da quelli utilizzati da Maritain a partire da una precisa visione metafisica della realtà e della persona e da un determinato linguaggio filosofico; restando nello stesso tempo attuale  la sua tesi di una convergenza possibile e anzi necessaria, sul terreno della collaborazione pratica, di uomini e donne di buona volontà che pure muovano da una diversa concezione del mondo e della vita.

Rimanendo forse in queste note  ancora aperta, in rapporto alla riflessione di Jacques Maritain, la questione di  come  la specificità di una concezione cristiana della realtà e della persona possa ancor oggi rilevare rispetto alla definizione di alcuni aspetti del bene comune.

Sarà senz’altro uno dei punti da poter dibattere insieme…