La business ethics tra condiscendenza e critica al capitalismo neoliberale

di Floriana Ferro

Nel panorama della cosiddetta “filosofia continentale”, come gli anglosassoni definiscono il pensiero di tradizione europea, l’etica applicata ha una risonanza limitata. Ad eccezione della bioetica, di cui nel nostro continente si discute e si scrive parecchio, sono pochi gli studi concernenti l’applicazione della filosofia morale a campi specifici. Tra questi vi sono le singole categorie professionali (ingegneria, architettura, medicina, ecc.), l’ambiente e le imprese. Sembra strano che il continente che ha dato i natali a Marx e alla Scuola di Francoforte si occupi limitatamente di etica economica. In realtà, è bene precisare che la filosofia continentale non ha dimenticato la lezione marxiana, tanto che le stesse teorie critiche del capitalismo si basano sull’idea che i rapporti di produzione costituiscano le basi del reale. Non mancano nemmeno scritti concernenti il lavoro in generale. Vi sono recenti studi, tra cui i contributi di Come la vita si mette al lavoro. Forme di dominio nella società neoliberale (Quaderno di “Edizione” a cura di B. Bonato, Mimesis 2010), nei quali, facendo riferimento a Derrida, Foucault e, in generale, ai Critical Management Studies, vengono messe in evidenza le peculiarità del capitalismo neoliberale, per poi essere sottoposte a un forte vaglio critico.

Secondo la Weltanschauung continentale, pare che il filone anglosassone sia prevalentemente asservito al sistema: vi sono infatti diversi “manuali” di business ethics, in cui si tenta di giustificare, con il pretesto di una maggiore utilità, il ricorso a misure considerate eticamente accettabili. Non si può negare che il problema dell’accrescimento del profitto e della necessità di aumentare esponenzialmente i dividendi degli azionisti sia una delle maggiori preoccupazioni degli imprenditori contemporanei, dovuta al legame indissolubile tra produzione e finanza. A ciò contribuisce il fatto che, in tutto il mondo occidentale (Italia compresa), la CSR (Corporate Social Responsibility) si configuri come interesse quasi esclusivo di economisti ed imprenditori “illuminati”, non certo dei filosofi. Vi è l’impressione che questi ultimi non vogliano sporcarsi le mani e rimangano in una dimensione distaccata, priva di contatto diretto con il mondo delle imprese: anche quando sembra volerlo smantellare pezzo per pezzo, la critica avviene da lontano. La caratteristica della business ethics è, invece, quella di approcciare il sistema capitalistico da vicino, analizzando nei dettagli la gerarchia delle aziende, la politica produttiva, la relazione con le cosiddette “risorse umane” (bisognerebbe attuare uno studio solo sull’uso di questo termine), il rapporto di un’impresa con la realtà circostante, le eventuali iniziative filantropiche, ecc. C’è da chiedersi, a questo punto, se sia possibile per i filosofi fare seriamente business ethics e non solo teoria critica, se non si debba con questo ricadere nella condiscendenza tipica dei manuali per imprenditori, e se, soprattutto, sia importante che la filosofia si metta in gioco in questo campo.

In questi anni, grazie alla mia esperienza londinese, ho avuto modo di comprendere cosa significa vivere in un sistema neoliberale. Per poter proseguire le mie ricerche fenomenologiche nella City, ho lavorato all’interno di una compagnia, la cui struttura è fortemente gerarchizzata. Questa esperienza, nata dalla spinta di un conatus essendi, mi ha permesso di sviluppare un certo interesse per il funzionamento delle imprese e per i meccanismi che la regolano. Dialogare con i lavoratori di altre compagnie dello stesso settore mi ha fatto comprendere che le aziende non sono tutte uguali e che esistono degli approcci assolutamente peculiari. Le modalità in cui il lavoratore viene trattato, in cui i membri dei vari livelli gerarchici comunicano tra loro e in cui si considerano fattori come qualità e quantità del prodotto, approccio al pubblico, relazione con la comunità di appartenenza, ecc., variano parecchio. Se, da un lato, è vero che vi sono delle peculiarità tipiche del sistema neoliberale, peculiarità ben affrontate dai Critical Management Studies, dall’altra è necessario che la filosofia si occupi anche di microfisica dei sistemi.

A questo scopo, l’approccio fenomenologico risulta particolarmente interessante. La sua collocazione intermedia tra la concretezza dell’esperienza individuale e l’astrattezza del trascendentale la rende adeguata per analizzare l’impatto delle politiche aziendali sui soggetti, le relazioni tra soggetti stessi e la loro possibilità di azione. Facendo tesoro di un forte bagaglio teoretico, la fenomenologia può essere applicata in campo etico, alle relazioni con l’alterità orizzontale e verticale nelle gerarchie aziendali, a come queste modificano l’impatto con il mondo e gli individui fuori dall’impresa, e a come modificano il modo in cui il soggetto percepisce se stesso. In questo modo i termini “alienazione”, “realizzazione”, “responsabilità”, “conseguenze” assumono un significato più pregnante. La fenomenologia, ponendosi al di fuori sia della critica da lontano, sia della giustificazione dello status quo, può far critica andando “alle cose stesse”, secondo il motto husserliano. Vedere il fenomeno nel suo manifestarsi offre una prospettiva privilegiata: mentre si svolge, ecco che ne emergono le luci e le ombre. A questo punto, il ruolo della filosofia risulta fondamentale per fare seriamente business ethics: le sue basi concettuali, unite a un approccio lucido e profondo del reale, permettono di studiare l’Erlebnis degli attori coinvolti nell’economia capitalistica. Solo così è possibile offrire una direzione da seguire, sia per chi voglia riformare il capitalismo dall’interno, sia per chi desideri, di contro, smantellarlo del tutto. La filosofia ha il compito di fornire gli strumenti necessari per risvegliare la coscienza critica; cosa fare di questi strumenti è poi frutto di una libera scelta.