“L’essenza stessa di ciò che separa è la fratellanza” (J. Lacan)
Dall’intervista di Guy Lérès
Attacco alla generazione Bataclan: perché?1, a cura di Alessandra Guerra, è un nuovo libro della collana “Libertà di psicanalisi”, un’iniziativa editoriale che nasce dal pensiero di salvaguardare la molteplicità dei punti di vista della psicanalisi sulla cura: la cura di sé, la cura educativa, la cura politica, la cura della libertà, che non è solo libertà della psicanalisi, ma anche – attraverso la psicanalisi – della vita civile in generale. Questo libro ribadisce qualcosa che Michel Plon ha affermato nel 2000 in occasione degli Stati Generali della psicanalisi, organizzati da René Major a Parigi. Nel suo breve intervento dal titolo “Rimanere rivoluzionari” Michel Plon afferma che oggi la psicanalisi è tentata di ripiegarsi sul versante terapeutico della cura, rinunciando alla sua vocazione politica. La psicanalisi o è politica o non è. Il libro Attacco alla generazione Bataclan: perché?, una raccolta di interviste a otto diversi psicanalisti, realizzata pochi giorni dopo i fatti del Bataclan, conferma pienamente la vocazione politica della psicanalisi. La difesa della libertà di ciascuno che la psicanalisi fa dal divano non è un atto intimistico e privato. È privatissimo nei modi e nelle forme in cui ciò avviene, ma i suoi effetti sono pubblici, perché vanno ad incidere sulla qualità del legame sociale, dei rapporti, e sulla decostruzione di quella pulsione di potere (Bemächtigungstrieb – Freud, Al di là del principio di piacere – di cui parla Derrida in Stati d’animo della psicanalisi), che in varie forme condiziona la nostra vita privata e pubblica.
La psicanalisi è politica, perché è decostruzione delle forme con cui continuamente si ripresenta nei singoli e nella polis la pulsione di dominio, che è l’anima della crudeltà, e perché non rinuncia mai all’esercizio del pensiero e della parola, anche di fronte all’orrore, alla crudeltà, al terrore. La parola terrore ha a che fare con territorio, cacciare da un territorio. Il primo territorio che il terrore esclude è quello del pensiero, ti lascia senza parole senza pensieri, atterrito. Ecco perché la psicanalisi ha l’obbligo di fare sempre posto al pensiero, alle parole in ogni circostanza. Questo è il suo specifico compito etico e politico. Non rispondere al terrore da terrorizzati, cioè senza pensiero, ma abilitarlo, custodirlo anche solo con un silenzio ma consapevole. Non c’è un alibi per la psicanalisi che la legittimi a non-pensare, ovvero a trattare gli eventi come vi fosse qualcosa di impensabile. Michel Plon nella sua intervista, si rifiuta di chiamare terroristi quei “giovani assassini”, questo perché ne farebbe dei mostri con cui è impossibile trattare, parlare, comprendere. I terroristi possono solo essere uccisi. Faccio osservare che un’analisi degli eventi come quella proposta in questo libro resta ancor oggi rara se non unica. È singolare inoltre, quanto riferito da Michel Plon, ovvero che il libro – pubblicato in Italia nel corso dell’estate del 2016 – non abbia ancora trovato un editore francese.
Per ribadire il compito della psicanalisi, ricordo quanto ha scritto Jacques Derrida nell’opera Stati d’animo della psicanalisi: “Il solo discorso che possa oggi rivendicare la questione della crudeltà come affar proprio sarebbe ciò che si chiama, da un secolo circa, la psicanalisi (…) La psicanalisi sarebbe l’unico sapere capace di affrontare la crudeltà sans alibi”.
L’ideale e la crudeltà è il titolo di un libro dello psicanalista Fethi Benslama, uno dei maggiori esperti del fenomeno della radicalizzazione islamista dal punto di vista psicoanalitico, di cui più avanti riporterò alcune tesi per metterle a confronto con altre contenute in questo libro. Quando le pulsioni distruttive si esprimono – anche nella storia – per opera di individui che definiamo terroristi, la psicanalisi si rimette di fronte al suo specifico “impossibile”, prendersi cura della parola per rielaborare e allontanare la tentazione di alcuni di legittimare le pulsioni distruttive con reazioni vendicative e violente.
Michel Plon nella sua intervista commenta le parole dette a caldo dopo i fatti del Bataclan dal primo ministro francese Manuel Valls, che disse: “Cercare di comprendere è già scusare”. Plon afferma che dire una cosa del genere è una sciocchezza, un invito a non pensare, un invito alla vendetta, cioè appunto al terrore. Comprendere non vuol dire giustificare, ma ascrivere correttamente le azioni, gli atti e i fatti, per individuare a 360 gradi le cause e i moventi di eventi così gravi. Comprendere le ragioni non vuol dire dare ragione e comprendere a 360 gradi vuol dire che nessuno può dirsi fuori da quest’analisi imputativa. La psicanalisi è un’indagine sui moventi cioè sulle cause soggettive degli eventi storici, anche i più spaventosi. È preparata a non chiudere “le orecchie” su questo. Sono due le parole che scelgo da questo libro e che ripropongo per una prima analisi del fenomeno della radicalizzazione, che ha armato dei giovani contro altri giovani. Cosa li ha portati a fare ciò? Il primo è quello di déshérence (mancanza/privazione di eredità o eredità mancata, vacante), il secondo quello di “identificazione eroica”. Il primo termine ricorre nell’intervista di Charles Melman, il secondo lo troviamo soprattutto nell’intervista di Robert Levy.
Afferma Melman: “Oggi sta accadendo che un certo numero di giovani musulmani si sente abbandonato dalle proprie famiglie, incapaci di trasmettere una cultura di origine, con dei padri che sono e vivono da umiliati, depressi, sottomessi e che, per affermare la loro autorità diventano molto brutali e violenti. In più questi ragazzi, a causa della disoccupazione di massa, vivono come se non fossero riconosciuti dalla comunità”. Non sono solo le loro famiglie a farne dei diseredati, ma la società globalizzata tutta, che ha escluso per alcuni soggetti ogni possibilità di emancipazione sociale, confinando tali possibilità nelle mani di un’élite privilegiata, quella che Bauman chiama l’élite dei globali o dei turisti, contrapposta ai locali, ai vagabondi, ai resti umani, gli scarti, che si vedono passare davanti l’accesso alle nuove forme di ricchezza e mobilità, che la globalizzazione offre, come un treno che alla loro fermata non si ferma. Quale chance di uscire da questa condizione di diseredato? Purtroppo questa possibilità è data da offerte di identificazione forti, che sottraggono l’individuo alla sua condizione di miseria e di isolamento o addirittura di disprezzo e lo proiettano in una comunità idealizzata e allo stesso tempo reale, molto forte (la Umma), dove anche la violenza estrema viene usata per cementificare i legami comunitari.
Afferma in questo libro Robert Levy: “La Jihad offre un’identificazione eroica che vale ogni nome del padre, e mi riferisco a il nome del padre, il padre “assoluto” (…) Qui si gioca la fragilità del simbolico … questi ragazzi regolano la loro fragilità simbolica attraverso un’identificazione totale ad un nome del padre che occupa il posto del padrone”, di un padrone feroce e mortifero. Questo è ciò che ISIS o Daesh ha offerto a questi giovani. Identificarsi a una causa, quella di essere un musulmano puro o super, come lo chiama Fethi Benslama. Descrivo brevemente la tesi di Benslama, che non troviamo nel libro, perché non è tra gli autori intervistati, per l’affinità con quella di Robert Levy sull’“identificazione eroica”. Benslama definisce il giovane radicalizzato “le surmusulman”. In questa parola vi è un nesso con sur-moi, super-io. C’è qualcosa di superegoico che lavora in due direzioni: l’obbedienza cieca alla purezza della legge, la Sharia, da un lato (Sharia che offre una compensazione alla disgregazione identitaria del giovane rifiutato/scartato dalla società liquida, globalizzata) e dall’altro l’elemento superegoico della postmodernità che è il comandamento “Godi”, da cui l’abbandono senza limiti e sensi di colpa alla violenza estrema e sadica verso gli altri presunti infedeli, di cui fanno parte anche i musulmani non puri, anzi soprattutto loro. Queste tendenze possono coinvolgere – per meccanismi che sono propri a quella che Freud chiamava Psicologia delle masse – anche più individui insieme, e uscire dall’ambito della psicopatologia individuale per alimentare processi devianti collettivi. Freud ne parla quando individua le pulsioni distruttive sia in Al di là del principio di piacere, ma anche in altri libri come Perché la guerra? che raccoglie un carteggio dello stesso Freud con Einstein, incaricato dalla Società delle Nazioni di trovarsi un interlocutore con cui discutere. Afferma Freud:
“Quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si desti in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, alcuni di cui si parla apertamente e altri che vengono sottaciuti. Il piacere di aggredire e distruggere è certamente uno di essi; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita ovviamente il loro soddisfacimento”2.
C’è una pulsione distruttiva negli uomini che quando trova l’alibi di un ideale, di una Causa, si sprigiona totalmente, senza limiti. Le pulsioni distruttive non sono solo endogene, innate per così dire, esse possono avere anche delle cause storiche che le attivano. Sono cause storiche che oltre a chiamare in causa i processi di globalizzazione e di assimilazione accelerata, selvaggia e non curata, affondano nel passato coloniale. È una tesi ben presente in questo libro, soprattutto nelle interviste di René Major e di Michel Plon. A livello inconscio le pulsioni distruttive sono causate anche da un’umiliazione rimossa che ha il suo peso nel portare in superficie caricando gravemente di risentimento e di rabbia la Causa contro gli infedeli. Di questo parla Michel Plon nella sua intervista, ne parla anche Major:
“Ricordiamoci dell’umiliazione subita dagli algerini dopo la prima e seconda guerra mondiale, quando – pur avendo combattuto una guerra non loro per l’esercito francese, non ne hanno ottenuto nulla in cambio. Occorre anche ricordare la repressione dei Fratelli musulmani nel 1991 in Algeria. Molti algerini – dopo la seconda guerra mondiale – sono emigrati in Francia vivendo ghetizzati e in condizioni di emarginazione civile ed economica. I figli e i nipoti di queste famiglie immigrate sono stati segnati inconsciamente dalla vergogna per le umiliazioni subite dai loro genitori e dai loro nonni (ricordiamoci che i figli della generazione algerina che si ribellò nel ’91 ha ora l’età dei terroristi e dei foreign fighters). Questa vergogna viene messa al servizio di una ribellione che li porta all’uso delle armi. Lo schema di trasmissione della violenza transgenerazionale attraversa tre generazioni, in cui la seconda è caratterizzata dal silenzio della rimozione, del diniego e della forclusione”.
La Francia ha inferto ai popoli da lei colonizzati terribili umiliazioni. Umiliazioni rimosse e anche in fretta da coloro che ne sono stati vittime, per vergogna e al fine di favorire più rapidi processi di assimilazione nei paesi dove sono migrati. Umiliazioni rimosse anche dal popolo che le ha operate, proteso – diciamo così – verso il futuro. Lo stato francese, ricorda ancora Plon, “non fa nulla per elaborare questa storia di vittime e carnefici. Nei libri di storia francese le vicende di sopruso ed umiliazione di cui è stata responsabile la Francia verso l’Algeria, ad esempio, non si trovano e non vengono raccontate, eppure cola ancora il sangue dall’anima per quelle vicende, una sofferenza che si è fatta rancore, rabbia, risentimento e sete anche inconscia di vendetta”. In generale noi tutti non facciamo niente per elaborare le violenze, le umiliazioni, la vergogna che sempre si ripresentano. Quando facciamo questo, cioè quando parliamo e non rimuoviamo, la storia ci ripaga con la pace. Penso al caso della Commissione per la verità e la pace del Sud Africa. Non è un caso che i padri umiliati non abbiano alcun peso ad esempio nel reintegro, quando possibile dei foreign fighters. Ci pensano le donne di famiglia, perlopiù. Gli uomini sono tagliati fuori perché la loro parola non pesa, anche quando, pur di farsi sentire, diventa autoritaria. Sono una generazione senza Nome. Non c’è Nome del Padre, salvo trovarlo in una rappresentazione truce e violenta del Padre, che comanda la morte con terrore propria e dell’altro. I figli di quelle generazioni di uomini/non-uomini e non-padri perché umiliati e talvolta autoritari e a loro volta umilianti nei confronti dei figli per reazione, trova nel Nome di Dio, l’idea, la Causa per la quale immolarsi, per la quale farsi martiri e ritrovare il senso dell’orgoglio e della fierezza, irrimediabilmente perduti innanzitutto dai loro padri e nonni.
Concludo ricordando che occorrerebbe indagare sulle forme del pensiero unico e dominante che si è imposto in Occidente e che si presenta come naturale e ovvio, privo cioè di alternative e che crea un profondo senso di impotenza (e non solo sui giovani immigrati di seconda e terza generazione, ma su tutti). Parlo di quel pensiero economico neoliberista che ci fa mettere sopra a tutto nella nostra vita il calcolo dei costi e benefici, anche sopra il valore della vita umana. E per il quale siamo sempre poveri e mancanti, bisognosi di appagarci con infiniti gadget (discorso del capitalista nuova forma del discorso del padrone). Non abbiamo il tempo di farlo qui, ma vi invito a leggere Il manifesto per la psicanalisi e Un bambino viene agitato, perché indagano, in modo diverso sugli effetti di questo pensiero unico sulla desertificazione del legame sociale e sullo stravolgimento del concetto di cura. Questo pensiero – che si è imposto con la globalizzazione e di cui parla anche Francoise Jandrot usando l’espressione di Guattari “capitalismo mondiale integrato” – ha operato una facile cancellazione delle tradizioni e del pensiero religioso, altra rimozione che ora paghiamo cara, in particolar modo con l’ideologia islamista, perché il ritorno del rimosso è il ritorno di un’origine dogmatica e violenta, in quanto esclude e anzi annienta il valore dell’interpretazione e si fa prossima al delirio (ne parla Fethi Benslama in La psicoanalisi alla prova dell’Islam). L’ideologia islamista con tutto il suo carico di delirio e annientamento si lega al nichilismo della modernità liquida, globale e neoliberale.
René Major, che ha ben presente questa questione aggiunge: “a queste due passioni narcisistiche e ascetiche (il capitalismo neoliberista e la Jihad) opporrei la passione per l’uguaglianza e la giustizia. L’uguaglianza decostruisce le illusioni e relega le pratiche religiose nella sfera privata. La giustizia in quanto ripartizione delle ricchezze accumulate da pochi. Occorre cominciare a riconoscere i fantasmi, non a scacciarli, occorre parlarci e dare loro un nome. Arriverà il momento in cui occorrerà parlare al nemico”, (anziché ricorrere sempre alla vendetta). Sono compiti impossibili, all’altezza di quell’impossibile che è la cura, l’educazione e il governo (Freud), ma il compito della psicanalisi è di rilanciarli sempre, non per un particolare attaccamento alle illusioni, ma per il compito di cercare anche nel buio più profondo, vie alternative al pensiero unico, dominatore, totalitario. Difendere il territorio vuol dire tenere desto il pensiero. Senza il pensiero non c’è intelligence, ma solo forza bruta e cieca.
1La presentazione è stata organizzata dalla psicanalista Antonella Silvestrini, fondatrice dell’Associazione La Cifra di Pordenone. Ospite d’onore Michel Plon, psicanalista francese tra i più autorevoli, autore con E. Roudinesco del Dictionnaire de la psychanalyse (Fayard, Parigi 2011).
2 S. Freud (1933), Perché la guerra? (Carteggio con Einstein) OSF 11, Borignhieri, Torino 1979, p. 299).