Pensare il digitale e il virtuale di Claudio Tondo

Una storia di lunga durata. Aristotele nel libro primo della Metafisica e poi Lucrezio nel De rerum natura, per illustrare le proprietà e i modi di aggregazione degli atomi, ricorrono all’esempio illuminante dell’alfabeto: una tecnologia virtualizzante, capace di generare mondi alternativi e di fissarli su un supporto esterno alle menti, viene quindi impiegata per pensare la “realtà” del mondo fisico. Atomi e lettere, in apparenza separati, convergono, dando inizio a una feconda interazione tra materiale e immateriale che ha modellato la cultura alfabetica e tipografica dell’Occidente.

Second Life 2013

(Second Life, dal simulacro agli ambienti virtuali)

Realtà. Qualcosa di analogo, seppure con conseguenze più robuste, è accaduto tra la fine del novecento e l’inizio del nuovo millennio con la rivoluzione digitale, resa possibile dagli sviluppi della Computer Science: accanto alla realtà fisica (atomi), biologica (geni) e mentale (neuroni), ha preso forma una realtà “alternativa” costituita da immagini, prodotte da un codice infinitamente manipolabile e duplicabile, e visualizzate sugli schermi di innumerevoli display. Si tratta di un evento epocale che obbliga la riflessione filosofica a ripensare la relazione tra atomi e bit, tra ambienti fisici e virtuali, tra Real Life e Second Life; e soprattutto a pensare le nuove forme di vita emergenti che in questa nuova cornice ontologica stanno rapidamente costituendosi, con effetti che, almeno a prima vista, possono apparire indesiderati. La prima preoccupazione riguarda gli effetti “derealizzanti” del virtuale. Soprattutto i teorici del simulacro (che del virtuale rappresenta una specie di anticipazione) hanno enfatizzato questa possibile deriva: il reale si dissolve nel virtuale, come se le vite degli umani stessero per essere assorbite e risucchiate in un mondo di apparenze. Il mondo extra-iconico “là fuori” – sia esso naturale o sociale – perde in consistenza e valore se non è incorniciato, duplicato e perfezionato dall’immagine digitale. Insomma, per i teorici della virtualità “dura e pura”, le immagini di sintesi non sono calchi della realtà – come vorrebbero i teorici del realismo fotografico e cinematografico (André Bazin e Roland Barthes) e di cui la Sindone

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(La Sindone di Torino, dettaglio del volto)

rappresenterebbe l’archetipo – ma simulacri, che annullano la realtà nel gioco iconico della simulazione e della virtualità, secondo le analisi di Jean Baudrillard (in particolare in Simulacres et simulation, 1981), successivamente tradotte in immagini dai fratelli Wachowski nel primo Matrix (1999), un film che mostra come la realtà esperita dai personaggi della vicenda altro non sia che una “neurosimulazione interattiva” generata dalle macchine.

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(Sistemi di Realtà Aumentata nella cabina di pilotaggio di un aereo)

Gli effetti derealizzanti delle tecnologie visuali, digitali e virtuali, e le preoccupazioni connesse agli sviluppi di internet e dei social commerciali di massa non possono essere negati. Tuttavia, altri usi del digitale possono indicare una direzione di riflessione dai toni meno apocalittici. Intanto, e questa è una constatazione di fatto, la virtualità non ha sfondato, dissolvendo il reale; piuttosto, si è assistito a una progressiva compenetrazione e sovrapposizione tra i due livelli di realtà, il cui esito, assai interessante per la filosofia, è la Augmented Reality, la Realtà Aumentata. Detto in termini semiotici: le immagini analogiche stanno per qualcosa, in assenza del referente; le immagini di sintesi e gli ambienti virtuali, almeno potenzialmente, si emancipano da ogni referente e dialogano autoreferenzialmente tra loro, senza la necessità (ormai obsoleta) di riferirsi a qualcosa che non sia il codice stesso; le immagini della Realtà Aumentata, invece, stanno con qualcosa, convivendo con ciò che rappresentano.

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(Chirurgia assistita da immagini di Realtà Aumentata)

Grazie ai dispositivi di Realtà Aumentata, le immagini e gli ambienti virtuali che popolano il nostro presente consentono ai soggetti un’esperienza duplice, perché il reale è contemporaneamente vissuto in presa diretta e attraverso l’intermediazione delle tecnologie visuali. Ci si muove dunque verso una forma mista dell’esperienza, in un territorio intermedio nel quale le immagini digitali e gli ambienti virtuali si sovrappongono, dialogano, coesistono e intridono le “cose”, così da incrementare il campo del visibile. Si prospetta un inquietante regime tecnologico dello sguardo orientato alla trasparenza radicale (come, per esempio, nell’imaging biomedico in grado di svelare l’opacità dei corpi) e al controllo assoluto (nel caso degli onnipresenti sistemi di videosorveglianza e degli algoritmi che profilano abitudini e preferenze private degli utenti della rete, fino a generare dei doppi digitali del sé che vivono di vita propria nei server disseminati in tutto il mondo). App scaricabili sugli smartphone, il progetto (abbandonato nel 2016) dei Google Glass, automobili equipaggiate con sistemi di visione notturna sono tutti esempi di usi sociali e potenzialmente diffusi della Realtà Aumentata che orientano la riflessione critica in una direzione in parte diversa da quella indicata dalle teorie del simulacro e della simulazione. Se poi si osservano pratiche e dispositivi più specifici, come quelli riguardanti i sistemi di addestramento e pilotaggio di aerei militari e civili, il controllo in remoto dei droni o i sistemi di chirurgia robotica e di telechirurgia, l’impatto della Realtà Aumentata sulle vite appare in tutta la sua evidenza e forza: ancora una volta – è bene ribadirlo – invece di manipolare o dissolvere il reale, il digitale – come una mappa che aderisce e combacia con il territorio – può strutturare l’operatività umana verso l’ambiente esterno e dirigere lo sguardo perfino verso le profondità oscure dei corpi, aggiungendo informazione e rendendo ambienti e corpi più visibili.

Verità. L’incremento tecnologico del campo del visibile pone un’altra questione su cui il sapere filosofico si interroga sin dalle origini, vale a dire il valore di verità dei costrutti simbolici e iconici prodotti degli uomini. Allora, ci si può chiedere se le immagini digitali “dicono” – anzi, mostrano – la verità? Non sempre, naturalmente: spesso mentono o disorientano o “agiscono”; oppure alludono alla dimensione dell’invisibile “metafisico”. In alcuni casi, tuttavia, possono essere intenzionalmente impiegate come fossero delle asserzioni visive che definiscono il vero e il falso a un livello di dettaglio che lo sguardo umano non può raggiungere. Certo, non si tratta di immagini che ossessionano e conducono alla follia, come nel caso di Aby Warburg, o che pungono, come in Roland Barthes, o addirittura che bruciano, come sostiene Georges Didi-Huberman, ma di rappresentazioni basiche, forse “banali”, che però indicano un nuovo modo d’essere dell’immagine tecnologica.

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(Mostrare la verità nello sport con Hawk-Eye “occhio di falco”)

Come nel caso di alcuni sport (tennis, calcio, cricket) in cui l’“occhio di falco” (Hawk-Eye) di molte telecamere ad alta risoluzione rielabora l’invisibile “percettivo” di arbitri, atleti, spettatori e telespettatori per stabilire con un’autorità che non può essere contraddetta se, per esempio, una pallina da tennis è in o out rispetto alla riga che delimita il campo di gioco. O come nel caso di un film di finzione, Forza maggiore (Ruben Östlund, 2014), che mostra come la verità di un evento, con tutte le conseguenze psicologiche, esistenziali e relazionali che ne conseguono, sia definita da una registrazione casuale effettuata da uno smartphone, le cui immagini rendono superfluo ogni possibile conflitto delle interpretazioni. Già operante in ambito scientifico, la forza di veridicità dell’iconico estende il proprio raggio d’azione in ambiti che riconfigurano, con conseguenze ancora da valutare, il nostro agire quotidiano e lo stesso mondo della vita. Malgrado la loro natura di codice senza alcun rapporto necessario con il reale, le icone sintetiche possono attestare l’esistenza di un evento e, di conseguenza, mostrare la verità (intesa nel più classico dei modi, come corrispondenza), che i sistemi percettivi umani non sono in grado di cogliere. Insomma, i dispositivi digitali di “cattura” del reale possiedono, in funzione della loro forza ontologica, anche una valenza gnoseologica che, seppure per ora circoscritta ad ambiti specifici, non può essere sottovalutata e che indirettamente indica una nostalgia per il referente da cui gli umani non sembra desiderino liberarsi completamente.

Claudio Tondo