L’ALTRA CONTESTAZIONE. IL FEMMINISMO NEGLI ANNI SESSANTA di Beatrice Bonato

imagePer la storia del femminismo contemporaneo, gli anni Sessanta possono sembrare un periodo meno interessante del decennio successivo, molto più ricco dal punto di vista dell’elaborazione teorica e più dinamico su quello dello sviluppo dei movimenti. Un passaggio compiuto e archiviato, almeno in apparenza, tanto che testi fondamentali non si ripubblicano da tempo, quantomeno in Italia. Ma forse è un luogo comune. Forse vale la pena mettere in rapporto questa fase, con la sua vitalità e i suoi limiti, con quanto ne deriverà di lì a pochi anni. I Sessanta vengono in genere considerati l’inizio della “seconda ondata” del femminismo, che si prolunga fino agli Ottanta. La prima era stata quella del suffragismo e dell’emancipazione, obiettivi conquistati nel mondo occidentale tra gli anni Venti e la fine della Seconda Guerra mondiale; la terza ondata investe gli ultimi vent’anni, alimentata da altre istanze, quali le rivendicazioni dei gruppi LBGTQ. Prendendo spunto da un’ipotesi di inquadramento fatta da Sergia Adamo in una sua lezione, si può anche utilizzare un criterio diverso, non cronologico, per analizzare questa vicenda. Si possono cioè distinguere alcuni paradigmi che hanno dominato, a volte anche nello stesso periodo, la riflessione teorica sulla questione femminile: quello dell’uguaglianza, quello della differenza, quello delle differenze al plurale. Direi allora che tra gli anni Sessanta e Settanta si profila quasi subito la tensione tra il paradigma dell’uguaglianza – dominante in modo esclusivo nella prima ondata –  e quello della differenza; tensione destinata poi a dilaniare i movimenti e, forse, a portare il femminismo, come progetto di liberazione, a una crisi difficilmente superabile. Da una ventina d’anni predomina infatti – beninteso in Occidente – la prospettiva delle differenze al plurale.

Alla delimitazione cronologica corrispondono precise coordinate geo-culturali. Il femminismo dei Sessanta è innanzitutto un fenomeno americano. Ma non solo. Come gli altri movimenti della contestazione – quelli contro la discriminazione razziale e quelli studenteschi – gli Stati Uniti fanno da battistrada, cogliendo prima che in Europa le contraddizioni della società del boom economico. Tuttavia, i primi gruppi femministi nascono quasi contemporaneamente negli USA e in Europa, soprattutto in Francia e in Italia. Ricordo solo alcune date fondamentali. Per gli Stati Uniti: 1966, Betty Friedan e Gloria Steinem (figura controversa, su cui aleggiano sospetti di collaborazione con la CIA) fondano il NOW (New Organization of Women); 1967, Shulamith Firestone e Anne Koedt danno vita al New York Radical Women, promotore, l’anno dopo, di una spettacolare manifestazione di protesta al concorso per Miss America ad Atlantic City; nel 1968 nascono i primi gruppi di autocoscienza ; nel 1969 Kate Millett guida le Redstockings; 1972 si forma la National Black Feminist Organization. In Francia il 1968 è la data di nascita di Psychanalyse et Politique, cui segue la fondazione del MLF, sulla cui origine precisa i vari gruppi dissentono. L’Italia è persino più precoce: nel 1963/64 (ancora totalmente all’oscuro sugli avvenimenti negli USA) Daniela Pellegrini fonda il gruppo DACAPO (Donne Contro Autoritarismo Patriarcale), basato su contenuti, analisi e scritti da lei stessa elaborati e proposti alle aderenti, e modifica il suo nome due anni dopo (1965) in DEMAU (Demistificazione Autoritarismo Patriarcale). Il primo manifesto femminista è del 1966. E poi, nel 1970, Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi danno vita a Rivolta Femminile. Nello stesso anno si forma il MLD, federato al Partito Radicale. In pochi anni, tra il 1972 e il 1974, compaiono collettivi Milano, Torino, Napoli e in altre città italiane.

Del fermento critico di quegli anni vorrei dare almeno un’idea, convocando alcune autrici, opere, posizioni che più incisero nelle grandi controversie di allora, ponendo interrogativi  non certo esauriti. Un primo terreno è quello politico, dove la domanda di fondo prendeva questa forma: che tipo di rapporto esiste tra il movimento e la teoria femminista e la politica, intesa tanto come progetto di trasformazione della società quanto come assunzione ed esercizio del potere? In secondo luogo mi interessa la riflessione sul ruolo tenuto dalla psicoanalisi nell’acquisizione della consapevolezza, da parte dei movimenti femministi, delle motivazioni dell’assoggettamento femminile. Infine la breve panoramica metterà a fuoco il confronto del pensiero femminista, sul limitare del decennio e all’inizio dei Settanta, con la tradizione e con il linguaggio della filosofia.

 

Politica. Femminismo liberale e femminismo socialista

Betty Friedan era una brillante giornalista, che aveva cominciato la sua carriera scrivendo sulle riviste femminili. fridanIl suo libro più celebre, La mistica della femminilità (1963) nacque da una serie di interviste fatte nel 1957 a donne laureate del ceto medio, in cui si cercava di capire quale fosse il loro grado di soddisfazione rispetto alle aspettative a quindici anni dalla conclusione degli studi. Si trattava perlopiù di donne con un discreto livello di istruzione, che si erano sposate verso la fine della guerra ed erano divenute madri e casalinghe negli anni Cinquanta. Nonostante il benessere economico, la relativa liberazione dalla fatica del lavoro domestico grazie a elettrodomestici sempre più sofisticati, l’amore verso il marito e i figli, il coinvolgimento in attività sociali di vario tipo, esse lamentavano sintomi, talvolta anche seri, di disagio psicologico, senza riuscire a definirne con chiarezza la causa. Per descrivere questa condizione di infelicità la Friedan prese a prestito da una di esse l’espressione “il problema senza nome”. Cosa era accaduto? Le donne americane di quella generazione avevano accettato, o creduto di accettare, il nuovo modello lanciato nel dopoguerra dalla pubblicità e dall’industria, con la collaborazione di schiere di esperti, non solo di marketing ma pure di diverse scienze sociali. Il nuovo modello esaltava la famiglia, per reazione ai duri anni in cui essa era stata divisa dalla lontananza degli uomini e dall’impiego delle donne nelle fabbriche e negli uffici. Il calore affettivo della famiglia, la felicità del matrimonio, insieme al buon andamento della casa, si facevano dipendere dalla dedizione della donna. Solo che, per le donne americane, diversamente da quanto accadeva nello stesso periodo in l’Italia, questa mistica era una negazione dell’emancipazione già avvenuta e assimilata tra gli anni Venti e il 1945. Non perché le Italiane la vivessero in un modo diverso, ma perché per loro nel ventennio precedente c’era stata la mistica fascista, e perciò il nuovo modello americano poté forse apparire, almeno per un po’, in una luce meno deprimente.

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In effetti, se pensiamo alle immagini del cinema americano di quel periodo, tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, siamo colpiti dall’insistenza di stereotipi femminili – la moglie sdolcinata, la giovane ansiosa di sposarsi, ecc. – rispetto all’epoca appena trascorsa, quando alcuni grandi registi avevano inventato personaggi assai meno scontati. Film come Accadde una notte o La costola di Adamo avevano infatti messo in scena una dialettica dei sessi ben più complessa, ricca di sfumature, aperta a impreviste oscillazioni tra i ruoli di genere dominanti (cfr. Stanley Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio). Dopo la guerra le donne, soprattutto le più giovani, avevano interiorizzato prontamente questi valori regressivi, persino reazionari, che  in un primo tempo erano apparsi loro più “moderni”. Avevano cominciato sin dalle scuole a disinteressarsi delle discipline di studio più impegnative, pensando già al loro futuro: casa, marito, bambini. Il boom demografico è anche una conseguenza del successo di questa riconversione, che agli inizi dei Sessanta non accenna a rallentare, anzi: le donne si sposano sempre più giovani, hanno il primo figlio sempre più presto, e il numero di figli tende ad aumentare.

Ѐ anche attraverso un’estetica del femminile che passa la “mistica della femminilità”: una moda che accentua fino alla caricatura, come nei secoli passati, la silhouette femminile con i suoi caratteri sessuali esasperati, la vita di vespa, il senso prosperoso, ecc., un linguaggio bamboleggiante e un comportamento infantilizzato. La Friedan non si accontenta questa pur efficace e pungente descrizione: senza nascondersi le motivazioni economiche, individua precise complicità nella cultura, in particolare nella sociologia, nell’antropologia funzionalista, nella psicoanalisi. E la politica? Nonostante il taglio saggistico, non militante, il libro ha una una tesi. Il messaggio di Friedan è ancora tutto pervaso dallo spirito del femminismo delle origini, in particolare dal richiamo alla gloriosa eredità del femminismo liberale, nato in America insieme alle battaglie contro lo schiavismo. Quel femminismo ha il suo atto fondativo: la manifestazione di Seneca Falls, nel 1848. Si costruisce qui una genealogia, si cerca di radicare una identità e una pratica. Ci si dà una tradizione, più o meno rivoluzionaria. Il femminismo, diversamente dai movimenti studenteschi, ha uno spessore storico. Quindi l’accostamento che si fa con la contestazione va relativizzato: quella del femminismo è un’onda molto più lunga. Quanto alle prospettive per il futuro, per la Friedan si tratterebbe di ritrovare lo slancio perduto, di riprendersi gli spazi pubblici che già erano stati conquistati e a cui si è rinunciato così rapidamente: innanzitutto il lavoro, e con esso l’indipendenza economica, la possibilità di partecipare e decidere, “come gli uomini”, imponendosi con la forza del proprio talento e della propria determinazione, a tutti i livelli, superando la paura di perdere, in questo processo, i vantaggi ambigui di una “femminilità” condiscendente. Mancano invece una critica complessiva del sistema socio-economico americano e una riflessione approfondita sulle ragioni della sottomissione femminile.

Il femminismo liberale è però soltanto una delle anime del movimento, presto messa in ombra da altre posizioni. Più “a sinistra” si colloca un femminismo socialista, più o meno strettamente legato al marxismo, poco radicato negli USA ma prevalente in Inghilterra e in altri paesi europei come la Svezia. Esso prende le mosse dall’analisi svolta da Engels ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Questa spiegazione riconosce la centralità della questione femminile per il socialismo, e coglie la complicità tra oppressione di classe e dominio maschile, fondate sull’affermazione della proprietà privata, dei beni, delle donne, dei figli. La famiglia monogamica realizza innanzitutto l’esigenza di controllare il patrimonio senza disperderlo e di trasmetterlo ai propri legittimi discendenti. La subordinazione della donna è un cardine del sistema capitalistico, è la prima a subire la schiavitù del proletariato. Si ammette che giochino, nello stabilirsi del patriarcato, sia l’inferiorità fisica femminile sia le condizioni della riproduzione, ben più vincolanti per le donne. Tuttavia, per questa componente del movimento non ci può essere liberazione della donna senza soppressione della proprietà privata e senza rivoluzione dei rapporti di produzione; non solo, ma la rivoluzione deve precedere a liberazione femminile, non viceversa.

Nel corso degli anni Sessanta il nodo non si scioglierà, diventando anzi uno dei motivi principali dell’incomprensione e infine della rottura tra il Women Liberation Movement e gli uomini della sinistra, bianchi e neri. Lo stesso accade in Italia, ed è una rottura drammatica, perché oppone non solo le donne agli uomini, ma anche le donne dei collettivi femministi – a loro volta frammentati – alle donne militanti nei gruppi della sinistra, come “Lotta continua”. Contro lo slogan dei collettivi “Il personale è politico”, i gruppi marxisti e in genere della sinistra riaffermano che la politica deve avere la priorità, sia sul piano degli obiettivi, sia su quello delle strategie e dei metodi di lotta.

Il femminismo radicale

“Perché una diagnosi economica basata sulla proprietà dei mezzi di produzione, persino dei mezzi di riproduzione, non spiega tutto. C’è un livello di realtà che non discende dall’economia […] Possiamo cercare di sviluppare una visione materialistica della storia basata sul sesso.” (S. Firestone, Dialettica dei sessi, cit. in J. Mitchell, La condizione della donna, p. 95).

Shulamith Firestone tagliava corto così con le categorie del marxismo Se l’origine dell’asservimento femminile è pre-sociale, quindi naturale, abolirlo vorrà dire letteralmente andare contro la natura per trasformarla. La scienza e la tecnologia (automazione e  contraccettivi) unite a una nuova sensibilità ecologica, potrebbero mettere fine tanto alla condanna del lavoro quanto alle fatiche della riproduzione e della cura di figli. Insieme all’ispirazione marcusiana, sembra già di percepire una sfumatura postumanistica. Altrettanto marcata è la distanza dal paradigma marxista e, in senso più ampio, dal linguaggio della politica, nel libro di Kate Millett La politica del sesso.

IMG_0159Lo “Stand-Point” assunto fin dalle prime pagine è dato dalla denuncia del patriarcato, termine con cui si nomina ormai un dispositivo di potere dell’uomo sulla donna non confinabile nel passato pre-moderno o nelle società rurali, ma ben vivo nella società contemporanea, a prescindere dalle differenze economiche, sociali, e persino razziali. Questo dispositivo funziona soprattutto attraverso la sessualità e il suo esercizio.

Millett è una studiosa di letteratura, come lo saranno molte altre figure di spicco del femminismo, non solo americano. Il libro si apre e si chiude con ampie citazioni da romanzi di autori “trasgressivi”: Henry Miller, Norman Mailer, Herbert Lawrence. Sono pagine che descrivono, da un punto di vista esclusivamente maschile, una cosa sola e in modo incredibilmente ripetitivo: il sesso. Pagine dove l’atto sessuale appare sempre e solo un modo per godere umiliando la donna, disprezzandone il corpo, ridotto a una vagina. Ma il disprezzo è rivolto soprattutto alla presunta passività femminile, al “piegarsi” della donna, in un abietto godimento masochistico, al dominio fallico. Perché in effetti di questo si tratta: non solo e non tanto della superiorità generale dell’uomo, quanto la supremazia del fallo con il quale egli si identifica. Lo stupro e la violenza sono gli strumenti di una strategia di potere, la “politica del sesso”.

“Ѐ tipico delle società patriarcali mettere in rapporto crudeltà e sessualità, e quest’ultima viene spesso considerata l’equivalente sia del male, sia del potere. […] La norma, qui, associa il sadismo con il maschio («il ruolo maschile») e la vittimizzazione con la femmina («il ruolo femminile»).” (K. Millett, La politica del sesso, pp. 64-65).

kate millett

Secondo l’autrice, l’ondata pornografica che ha investito la letteratura a partire dagli anni venti del XX secolo non segnala affatto una rivoluzione sessuale, ma esattamente il suo contrario: è la spia di una controrivoluzione, della reazione a un processo di liberazione della sessualità solidale con l’emancipazione delle donne cominciato alla fine del secolo precedente e protrattosi fino al primo ventennio del Novecento. Quella stessa controrivoluzione che in politica si è espressa attraverso il Fascismo. Ben diversamente Millett tratta Jean Genet, scrittore omosessuale outsider, orfano e ladro recidivo, molto amato anche da Sartre e da Foucault. Già si avverte, nella vicinanza a lui e alle figure degli omosessuali passivi, i più disprezzati nella scala di valori correnti, il filo che legherà, più tardi, il femminismo con il movimento gay, in un’altra storia non pacifica e non priva di equivoci e fratture.

Ambivalenza della psicoanalisi

Come Betty Friedan, in La politica del sesso (1969, 1970) Kate Millett coinvolge nella sua denuncia i maggiori indirizzi delle scienze umane; come lei identifica nella psicanalisi freudiana uno strumento della controrivoluzione patriarcale. Si tratta di un giudizio sommario, discutibile, fondato su una conoscenza limitata dell’opera di Freud e su forzature e semplificazioni. Fortunatamente, non sarà per il movimento un giudizio inappellabile. La questione principale per l’autrice è la seguente: qual è la radice dell’assoggettamento femminile? Esistono ragioni psicologiche, connesse con la costruzione dell’identità femminile, in quanto caratterizzata da un’evoluzione differente da quella maschile? E se si trova davvero, alla fine, una differenza, come va interpretata? La teoria freudiana ha un ruolo ambivalente. Da un lato rappresenta “la più possente forza rivoluzionaria individuale dell’ideologia della politica sessuale”, dall’altro, “per una tragica ironia” la scoperta di Freud finisce per servire a confermare “un punto di vista essenzialmente conservatore” (La politica del sesso, p. 224). L’autrice riconosce che la torsione conservatrice dipende in parte dalle interpretazioni “normative” tipiche della psicanalisi americana del dopoguerra (la psicanalisi “ortopedica” denunciata, in Francia, da Jacques Lacan), allineata alle psicoterapie nel promuovere l’adattamento al modello culturale dominante, nel disinnescare le potenzialità sovversive del disagio, nel favorire l’assunzione dei ruoli sessuali, familiari, sociali previsti dal sistema. Tuttavia è proprio a Freud che Kate Millett imputa, come la Friedan, un’ambiguità di fondo in rapporto alla spiegazione della sessualità femminile. Essa è ricalcata su quella del bambino maschio e sulla centralità dell’Edipo maschile. Sono noti i paradossi e le incongruenze, di cui Freud non era del tutto inconsapevole: la bambina deve abbandonare il primo oggetto d’amore, la madre, per rivolgersi all’oggetto dell’altro sesso, il padre. Ma, mentre per il maschio l’abbandono viene fondato sulla minaccia della castrazione, per la bambina questo deterrente non funziona, non avendo lei “niente” da perdere. Quindi bisogna trovare un altro motivo: lei entra nell’Edipo a causa dell’invidia del pene, di cui manca. E della cui mancanza accusa la madre. Ne uscirà soltanto nella misura in cui accetterà questa mancanza, che è anche mancanza della possibilità di esercitare una funzione attiva verso gli oggetti e verso la vita; si volgerà a mete passive e si identificherà con la donna in quanto madre, diventando lei stessa madre. Il bambino sarà dunque, per lei, il solo degno sostituto del fallo. La bambina pagherà un prezzo per questa evoluzione psichica: non solo con la rinuncia oggettuale alla madre, ma anche con il sacrificio di un piacere inutile, connesso con uno strano organo, irrisoria copia del pene, un organo che insomma non è complementare e che disturba il binarismo in cui, in modi più o meno armoniosi, va a incanalarsi la sessualità adulta. Diventare donna, nel quadro della teoria freudiana, significa rinunciare al piacere clitorideo e rivolgersi a quello vaginale, scoprendo un organo che la bambina, sembra pensare Freud, non sapeva neppure di avere. Infatti, come c’è una sola libido, si potrebbe anche dire che esiste un solo vero e proprio organo sessuale. Rimanere fissate al piacere clitorideo significa dunque prendere una strada non femminile, che può sfociare nella frigidità o nell’omosessualità. Ora, mentre in Freud queste osservazioni pur discutibili non assumono mai una valenza prescrittiva, nel linguaggio della psicoanalisi americana del dopoguerra diventano una specie di dogma, che la sessuologia sembra consolidare, persino quando la rovescia.

In Francia, intanto, si assiste a un fenomeno di segno opposto a quello americano di ripulsa della psicoanalisi. Il femminismo incontra la psicanalisi, nella versione lacaniana, e ne fa, non senza scontrarsi con l’istituzione, il terreno di una pratica che solo impropriamente possiamo chiamare di autocoscienza. Nel 1968 Antoinette Fouque fonda il gruppo Psychanalyse et Politique, famoso per i raduni colorati e apparentemente disordinati, per i balli e per le discussioni interminabili, ma soprattutto per la ricerca rigorosa di un lavoro sull’inconscio e sui fantasmi. E, di qui, sulla difficoltà delle relazioni tra donne, che non dovrebbero rimuovere il fatto che le dissimmetrie di potere le riguardano da vicino. Sulla scorta di Lacan e poi dell’“eretica” Luce Irigaray, la psicanalisi diverrà il luogo di un confronto con l’inconscio e con la macchia cieca del femminile, cioè la relazione con la madre e, per suo tramite, con l’altra donna. Va detto che il materno qui non va inteso tanto come la generatività femminile, quanto come la via verso la riscoperta di un legame con la madre in quanto donna, “la madre prima del padre”. La questione sessuale resta ineludibile. Da qui comincia a prendere forma la filosofia della differenza. Che, prima di diventare in effetti una filosofia, o un insieme di posizioni filosofiche, molto prima di diventare accademia, è stata una messa in discussione della filosofia come tale.

Filosofia

Le autrici citate finora sembrano interessate alla teoria, ma non precisamente alla filosofia. Si ha la sensazione che persino l’opera capitale di Simone de Beauvoir Il secondo sesso (pubblicata nel 1949, tradotta in inglese nel 1953 e in italiano nel 1961) più che stimolare una riflessione ulteriore, si erga come un monumento un po’ ingombrante, con cui non si riesce a misurarsi. Le filosofie femministe sono un frutto che matura tra la metà degli anni Settanta e gli Ottanta. A quel punto, la prospettiva di Simone de Beauvoir, dominata com’era dal linguaggio fenomenologico-esistenzialistico e dalla polarità trascendenza-immanenza, apparirà inadeguata perché in debito con il pensiero maschile e con il paradigma dell’uguaglianza. Nel frattempo altre filosofie avevano guadagnato la scena. Le filosofie della differenza più famose mettono al centro l’esperienza del corpo e del desiderio, piuttosto che quella della libertà del soggetto. Prima che avesse inizio questa stagione di fioritura, è l’italiana Carla Lonzi (1931-1982) a prendere di petto la filosofia. Nel 1970 fonda, con Elvira Banotti e Carla Accardi, il gruppo “Rivolta femminile”, che diventerà il riferimento del femminismo radicale in Italia, lanciato con un manifesto conciso e folgorante; nello stesso anno scrive Sputiamo su Hegel e, l’anno dopo La donna clitoridea e la donna vaginale, (sullo stesso argomento del lavoro dell’americana Anne Koedt, Il mito dell’orgasmo vaginale, pubblicato nel 1970).

Uguaglianza e differenza

“La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli. (C. Lonzi, Manifesto, p. 5). Per uguaglianza della donna si intende il suo diritto a partecipare alla gestione del potere nella società […] Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere.[…] L’uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni essere umano a cui va resa giustizia. La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano […]. Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell’umanità.” (C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, pp. 13-14).

imageEsiste dunque un’alterità reciproca. La donna non è l’Altro assoluto dell’uomo, ma è altro relativo. Tuttavia, la donna deve definirsi e prendere coscienza di ciò che è partendo da sé, non dall’uomo. Ecco il senso, filosofico ed esistenziale insieme, delle pratiche di autocoscienza. Non chiacchiere intimistiche, ma pratiche filosofiche nel senso più preciso del termine, esse mirano alla formazione di una coscienza attraverso il riconoscimento da parte di un’altra. Ma allora, viene voglia di obiettare, perché sputare proprio su Hegel? Due sono i motivi indicati dalla Lonzi. Innanzitutto il riconoscimento in Hegel è sempre un gioco tra uomini, da cui la donna è esclusa (ma tuttavia implicata, perché conserva il principio pre-sociale del sentimento familiare, come Antigone). In secondo luogo il riconoscimento in Hegel ha bisogno della lotta per il prestigio, della paura della morte ecc. Ed è sempre asimmetrico, agonistico, violento. Hegel non arriva a concepire la differenza uomo-donna se non su un piano naturale. D’altronde, se avesse inteso l’antagonismo uomo-donna non come un dato naturale ma come un’esperienza umana e umanizzante, la sua teoria del riconoscimento attraverso la figura servitù/signoria sarebbe crollata, perché l’antagonismo sessuale non assume la medesima forma.

“[…] in questo avrebbe incontrato un serio ostacolo: infatti se il metodo rivoluzionario può cogliere i passaggi della dinamica sociale, non c’è dubbio che la liberazione della donna non può rientrare negli stessi schemi: sul piano donna-uomo non esiste una soluzione che elimini l’altro, quindi si vanifica il traguardo della presa del potere.” (Ivi, p. 20).

Sputare su Hegel non è semplicemente uno slogan femminista irriverente all’indirizzo di una caricatura del filosofo di professione: è una dichiarazione di estraneità alla tradizione marxista e all’idea che la liberazione della donna dipenda da una più fondamentale liberazione del proletariato dallo sfruttamento capitalistico, cioè dal successo della rivoluzione comunista. Carla Lonzi è chiarissima su questo punto. Ecco perché da questa posizione coerente di femminismo radicale si doveva giungere, e in effetti si giunse, alla rottura con i metodi dei gruppi della sinistra extra-parlamentare e anche con i gruppi femministi affiliati a quei gruppi, per non dire delle associazioni delle donne del PCI e del MLD legato al Partito radicale.

Molto lontana dall’orizzonte rivoluzionario del marxismo, Lonzi lo sarà altrettanto dalle lotte per i diritti. Sulla legalizzazione dell’aborto, è il caso di ricordarlo, i collettivi del femminismo radicale appoggiarono la battaglia, ma spesso con imbarazzo e tra aspre divisioni interne, come ricordano Anna Bravo, Fiamma Lussana, Maria Schiavo. Un episodio marginale di questa vicenda conserva un significato enigmatico. Dopo la pubblicazione sul “Corriere della Sera” della famosa lettera contro l’aborto di Pier Paolo Pasolini, la Lonzi scrisse a sua volta al quotidiano, ma la sua replica non venne pubblicata; allora la inviò allo scrittore, senza riceverne risposta. Nella lettera si ricorda a Pasolini come la posizione di “Rivolta femminile” fosse stata fin dall’inizio molto vicina alla sua, nel rivendicare il primato di una critica al patriarcato rispetto alla battaglia sul diritto di abortire. La legalizzazione dell’aborto, portando sotto il controllo dello Stato la capacità femminile di procreare e di non procreare, riconfermerebbe il patriarcato anziché superarlo.

Differenza, separazione e soggettivazione

A dire il vero Carla Lonzi non dice molto sulla differenza, a parte l’insistenza sulla sessualità clitoridea, che viene giocata fino in fondo come una battaglia per l’appropriazione di un piacere misconosciuto, che assurge a emblema dell’autonomia femminile, dell’irriducibilità del godimento femminile ai desideri e ai fantasmi maschili. Oggi questo modo di intendere la differenza ci appare unilaterale e povero di contenuti. Non solo ma, a leggerlo sulla pagina dopo il manifesto antihegeliano, fa l’effetto di un salto logico davvero troppo spericolato. Cosa c’è in mezzo? La mancanza di mediazioni stride, anche in un testo che puntava volutamente a disturbare. Le filosofie della differenza successive, pur non prive di difetti e aporie, andranno certamente più lontano nella elaborazione teorica. Eppure c’è qualcosa negli scritti di questa autrice e anche nelle sue scelte che mi sembra toccare più profondamente di altri e altre alcune verità sulla questione sessuale. Le formulerei così.

– In un certo momento storico, ma forse, in qualche momento, in ogni vita individuale, si pone la necessità di una separazione: delle donne dagli uomini, per dare uno spazio a quel riconoscimento reciproco tra le donne che non era affatto scontato nei gruppi misti; ma anche della singola donna dal collettivo, con una scelta difficile e scarsamente compresa che fu abbracciata a un certo punto dalla stessa Lonzi. Nei suoi testi teorici, ma soprattutto nel Diario, si percepisce l’esigenza di un esercizio che non saprei definire meglio se non come esercizio di soggettivazione. L’esercizio personale è tanto radicale quanto l’attività collettiva. Con Sloterdijk vorrei chiamarla un’ascetica, o anche un’acrobatica: “Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo.” (Manifesto, p. 11)

– Le pratiche di autocoscienza e di riconoscimento non sono neutre né innocue: esse fanno affiorare la questione del potere e della sua vita psichica oltre che sociale. Il tema del potere sarà infatti centrale per filosofe partite dal femminismo come Luisa Muraro, Adriana Cavarero e Judith Butler. Su questo, come su altri punti, le vie del femminismo divergeranno da quelle del Sessantotto, movimento che per alcuni aspetti avevano preceduto e anticipato. L’alleanza tra la contestazione giovanile e l’“altra contestazione” è effimera e fondata su una comunanza temporanea e in fondo apparente, come Carla Lonzi constatava con qualche amarezza ma anche con lucidità. Difficile distinguere infatti, nella ribellione dei giovani, il rifiuto del sistema di potere in mano agli adulti dal desiderio di occuparne il posto sostituendosi ai “vecchi”. E in effetti molti protagonisti di quella stagione, rivoluzionari da giovani, sarebbero divenuti conservatori da adulti. Donna invece si resta tutta la vita. Come scriverà, diversi anni più tardi, Luisa Muraro:

“[…] quel pensiero «ma io sono una donna» è avvenuto e ha prodotto delle conseguenze, e come tale va considerato, non come un’affermazione metafisica, sebbene non sia senza effetti sulla metafisica. Non siamo partite dai fondamenti, dire «io sono una donna» è un cominciare in medias res, che vuol dire nel bel mezzo di tante cose già fatte, malfatte, nominate, imposte, rimediabili o irrimediabili. Ci sono forse altri punti di partenza per chi non ricorre all’astrazione del potere (e al corrispondente potere di fare astrazione)? Si comincia dove ti trovi a essere, quella o quello che ti trovi a essere.” (L. Muraro, Al mercato della felicità, p. 52).

L’essenzialismo tanto spesso rimproverato al pensiero femminista della differenza è forse soprattutto in queste parole e in queste conclusioni. Non c’è nessuna essenza da rivendicare per ancorarvi un’identità rassicurante. Questo femminismo è radicale perché muove dalla radice; non esclude omosessuali, trans o queer, ma si tiene lontano da posizioni che, da minoritarie, deboli, ribelli, vogliano trasformarsi in dominatrici e portare la loro differenza al potere.

Beatrice Bonato

L’articolo riprende l’intervento del 7 marzo 2017 tenuto al corso di aggiornamento ANNI SESSANTA DEL NOVECENTO. Un decennio di speranze a cura dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione anche in collaborazione con la SFI-Sezione FVG.

Riferimenti bibliografici

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Franchi Gian AndreaComunismo e femminismo

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Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1978

Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Carocci, Roma 2012

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