Classe 5°A del Liceo Niccolò Copernico di Udine
Resoconto sulla Summer School di Filosofia e Teoria Critica del settembre 2019
La rivoluzione urbana e la modernità.
Il problema della città tra filosofia, architettura e scienze sociali
Nei giorni 23-24-25 Settembre 2019 abbiamo avuto il piacere di partecipare, insieme ad altri 25 studenti del Copernico e una trentina di allievi di altri licei del Friuli Venezia Giulia, al progetto “Summer School di Filosofia e Teoria Critica”, avente come tema “La rivoluzione urbana e la modernità. Il problema della città tra filosofia, architettura e scienze sociali” tenutosi al polo universitario di Gorizia. Durante la prima giornata abbiamo avuto l’occasione di seguire le lezioni introduttive ai quattro seminari ai quali abbiamo partecipato il giorno seguente, su base opzionale. Le lezioni sono state tenute dai professori Sergia Adamo, Luca Del Fabbro Machado, Giovanni Mauro, Giuseppina Scavuzzo. Le lezioni avevano come argomento, rispettivamente, “Camminare in città: strategie e tattiche creative a partire da Michel de Certeau”, “La segregazione urbana nella città moderna e il caso di Brasilia”, “Dalla città monocentrica alla città policentrica: le nuove forme dello spazio urbano” e “La “città dei matti” come laboratorio di progetto: un dialogo tra architettura e psichiatria”. Su ciascuna delle quattro lezioni abbiamo redatto una relazione di sintesi, che riportiamo qui sotto.
Giulia Beltrame e Adele Ottaviano
Lezione e seminario di Luca Del Fabbro Machado
La segregazione urbana nella città moderna e il caso di Brasilia
La lezione del professor Luca Del Fabbro Machado verteva sulla segregazione in rapporto al “diritto alla città” (H. Lefebvre) e trattava in particolare il caso della città di Brasilia.
Nelle città si può notare spesso una dicotomia tra i quartieri benestanti e i quartieri poveri, a cui corrispondono rispettivamente i concetti di “città prodotto” e “città opera”. La “città prodotto” è pensata in modo standardizzato in quanto progettata “in serie” seguendo criteri puramente razionali e il suo valore consiste nel mero valore di scambio in senso economico e commerciale. La “città opera”, invece, è simbolo della collettività ed è il risultato dell’insieme delle azioni della cittadinanza senza un particolare schema. In questo tipo di città è presente una notevole diversità, il suo valore principale riguarda il valore d’uso. Con l’aumentare della percentuale di popolazione urbana aumenta anche l’esclusione dalla partecipazione alla vita urbana e allo sviluppo democratico della città. A tal proposito Lefebvre afferma che
“Escludere dall’urbano i gruppi, le classi, gli individui, equivale a escluderli dal processo di civilizzazione, se non dalla società. Il diritto alla città legittima il rifiuto a farsi escludere dalla realtà urbana da parte di un’organizzazione discriminatoria e segregativa”.
Viene quindi a delinearsi una nuova forma di segregazione detta spaziale, ossia un’occupazione separata, da parte di diversi gruppi umani, di aree spaziali collocate all’interno di determinati orizzonti geopolitici, come un’area urbana, una località, una regione, uno stato. Riportiamo da Lo spazio urbano è il terreno di contesa politica. Note sul pensiero di Henri Lefebvre, in «Il Ponte», n. 2, Febbraio 2017, una citazione che descrive molto bene il pensiero dell’intellettuale riguardo a ciò:
“La città come prodotto, come merce è così rovesciata in favore di una città come opera autentica, al servizio – all’uso – di chi la abita […]. Il diritto alla città per l’autore francese è quindi diritto all’attività partecipante e alla fruizione dei beni e dei servizi collettivi contro la logica proprietaria e privata del capitalismo. La città quindi dovrebbe essere molto più simile all’opera d’arte rispetto a un prodotto della merce.
Lefebvre pensa lo spazio urbano come riappropriazione collettiva di un modo di vivere altro, proponendo l’uso e la produzione comune di esso. La città come opera d’arte non è altro che una metafora performativa per descrivere la possibilità di istituire un nuovo rapporto con lo spazio, sottratto alla subordinazione del mercato, del profitto in nome di una comune appartenenza a un comune tessuto sociale. È l’uso comune – l’adoperare comune – dello spazio che è al centro della riflessione lefebvriana. Pertanto è forse opportuno prendere le distanze da interpretazioni che recintano il concetto di diritto alla città quasi esclusivamente nel campo giuridico o nelle teorie del “governo del territorio”, associandolo a generiche istanze universalizzatrici.”
Brasilia è una città nella quale questa forma di segregazione è stata presente, in quanto voluta, già dalle origini, e quindi si presta particolarmente come esempio di studio di questo argomento.
Brasilia è stata scelta come capitale prima ancora che la città esistesse: il presidente J. Uscelino Qkubitschek aveva deciso che questa doveva essere trasferita da Rio de Janeiro. La necessità di avere una capitale neutrale rispetto alle regioni e dal valore simbolico ha portato alla scelta di situarla al centro del Brasile, dove non c’era stata ancora alcuna attività di urbanizzazione. La città era ideata per ospitare 500.000 persone, principalmente tra i vertici dello Stato (l’elite dei funzionari di Stato e politici), e il piano regolatore nasceva da una visione totalizzante che non prevedeva future modifiche da parte della popolazione. L’italiano Lucio Costa vinse il concorso come pianificatore urbano mentre Oscar Niemeyer fu l’architetto capo della maggior parte degli edifici pubblici.
La capitale doveva avere un triplice significato: essa doveva essere monumento (in quanto simbolo dello Stato), parco (come spazio unitario per la fruizione della società) e condominio residenziale. L’idea di partenza di Costa era di costruire la città a forma di croce: egli afferma infatti che “Il progetto nasce dal gesto primario di qualcuno che segna un luogo per prenderne possesso: due assi che si incrociano ad angolo retto, il segno stesso della croce”. Dovendosi però adattare alla conformazione del luogo, che prevedeva la prossima costruzione di un lago artificiale, la città venne costruita a forma di aeroplano o di uccello. L’asse centrale doveva costituire il fulcro della vita cittadina e le altre strade, perpendicolari ad essa, dovevano portare alle zone residenziali. Tale pianificazione doveva favorire il raggiungimento dei servizi all’interno della città e Costa pensò, in modo lungimirante, di costruire strade larghe, in particolare l’asse centrale, per scoraggiare possibili sommosse e fenomeni di criminalità.
Il progetto di Niemeyer, invece, prevedeva che gli appartamenti fossero situati a partire dal primo piano dell’edificio: il piano terra, infatti, doveva essere assente dando luogo ad uno spazio verde continuo e percorribile.
Per evitare la presenza degli operai, ritenuta ingombrante e inopportuna, all’interno della città durante la fase di costruzione, si decise di far alloggiare i suddetti in appositi campi ai margini della città, in luoghi chiusi e rigidamente amministrati. Il loro carattere fortemente spersonalizzante preoccupò Hannah Arendt, la quale temeva che questo modello potesse essere preso ad esempio dai regimi totalitari per sopperire ai problemi di sovrappopolazione.
Con il passare del tempo questi campi andarono allargandosi sempre più, assumendo la forma di baraccopoli. Tuttavia, siccome questo alterava la forma perfetta della città e intaccava l’idea originaria di ospitare solo le élite, le masse dei lavoratori vennero spostate a 25 km di distanza dalla città. Si formarono quindi città satellite fortemente standardizzate, totalmente sprovviste dei beni e servizi necessari per chi vi abitava: mancavano infatti acqua potabile, collegamento alla rete elettrica, rete di trasporti che collegassero al la periferia al centro, attività commerciali e ogni tipo di servizio.
Gradualmente si iniziò a costruire, in modo illegale, case non previste dal piano regolatore al limitare di Brasilia. Tali abitazioni erano solitamente ville raggruppate in complessi residenziali recintati (gated-communities); si manifestava così una volontà di segregazione volontaria. Nel frattempo anche le città satellite cominciarono a evolversi: sorsero infatti edifici non previsti dal piano regolatore che erano una copia, seppur molto più modesta, delle gated-communities presenti appena fuori Brasilia e, soprattutto, attività commerciali illegali ma positive per la popolazione in quanto non rientranti in quel modello standardizzato che risultava disumanizzante.
Conseguentemente al clima di diffidenza creatosi si cominciò progressivamente a delimitare gli spazi (dapprima con bordure costituite da bassi arbusti, poi con siepi, infine con grate metalliche); venne così a perdersi quel senso di continuità presente tra i parchi (pubblici) e le aree residenziali, che era stato fulcro del progetto urbanistico di Brasilia.
Alla fine del seminario il relatore ci ha chiesto di ipotizzare delle possibili soluzioni al problema della segregazione a Brasilia. Utilizzando alcuni libri contenenti progetti inerenti a questa o ad altre situazioni similari abbiamo avuto la possibilità di discutere a riguardo.
Diminuire la distanza delle città satellite da Brasilia, ponendo magari un bosco in mezzo per attutire il contrasto e migliorare la qualità di vita, migliorare le vie di collegamento tra la zone elitaria e l’area di più recente costruzione, condensare la popolazione in grattacieli (poco invasivi per l’immagine simbolica della città) e favorire, anche forzatamente, l’interazione tra i due gruppi, ci sono parsi i punti chiave da cui sviluppare un’alternativa all’attuale modello di città.
Jacopo Conza
Lezione e seminario di
Giovanni Mauro
Dalla città monocentrica alla città policentrica: le nuove forme dello spazio urbano
Il seminario numero tre era curato dal professore Giovanni Mauro e verteva su temi di geografia e in particolare sui processi di urbanizzazione che caratterizzano le città moderne, con qualche accenno alla formazione delle città premoderne europee.
Il professore ha subito posto l’attenzione sulla differenza tra agglomerazione e conurbazione, evidenziando le peculiarità che caratterizzano questi due fenomeni di crescita di una città: mentre nella prima un’unica città nel suo processo di crescita agglomera le aree urbane limitrofe, nella seconda due o più città si espandono lungo le strutture delle stesse e si fondando o crescono insieme.
La lezione è poi proseguita con l’esame di quello che è sembrato essere il tema più caro al professore, ovvero la spiegazione di quelle che vengono chiamate le “fasi della vita della città” (urbanizzazione; suburbanizzazione; deurbanizzazione; riurbanizzazione), quindi il modo in cui le città crescono, si popolano e, a causa di fattori antropologici ed economici, si spopolano grazie all’insediamento in comuni limitrofi al centro urbano di masse consistenti. Questo fenomeno riguarda in particolare alcune città italiane, che a partire dagli anni ottanta e novanta hanno subito un processo di deurbanizzazione.
Il professor Mauro ha poi illustrato la principale differenza tra le città europee e le città americane: le prime si strutturano secondo un modello radiale in cui da un centro specifico si sviluppa la città, le città americane si strutturano invece secondo un modello a nuclei multipli, formando un agglomerato urbano policentrico.
Infine è stato affrontato il concetto di megalopoli che il professore ha definito come un organismo urbano di livello gerarchicamente superiore rispetto alla metropoli. La singola città, come per esempio Boston, viene considerata una metropoli, ovvero una città di grandi dimensioni solitamente con più di un milione di abitanti. Per megalopoli invece si intende un’organizzazione territoriale, come per esempio la zona che va da Boston a Washington, in cui più città vicine (che possono anche essere divise da aree rurali) formano un grande agglomerato.
Vittoria Montanino
Lezione e seminario di
Giuseppina Scavuzzo
La “città dei matti” come laboratorio di progetto: un dialogo tra architettura e psichiatria
Nel quarto seminario, tenuto dalla docente del corso di architettura dell’Università di Trieste Giuseppina Scavuzzo, il filo conduttore è stato quello del manicomio Francesco Giuseppe di Gorizia.
Oggetto del primo incontro – la lezione – è stata la presentazione generale del complesso, seguita da una discussione sull’analogia tra manicomi e lager, nella quale è stata citata anche l’opinione dello scrittore ed ex internato di Auschwitz Primo Levi, e dall’analisi di quelli che erano i due modelli architettonici proposti e utilizzati nella costruzione dei manicomi, ovvero il modello austriaco e il modello italiano fascista.
Innanzitutto, l’ospedale psichiatrico è stato aperto nel 1911 a Gorizia, sul confine sloveno, ed è stato utilizzato durante gli anni anche come strumento di repressione politica, in particolare da Mussolini che rinchiudeva qui i suoi oppositori, facendo loro perdere così ogni diritto e ogni proprietà. È ricordato per aver avuto come direttore Franco Basaglia, che riuscì a migliorare le condizioni di vita dei malati, prima solo a livello regionale, dove introdusse uno stipendio per coloro che lavoravano nella colonia agricola (introdotta da Mussolini per far sì che il manicomio non pesasse sulle casse dello stato e diventasse quindi autosufficiente), dei permessi d’uscita per i pazienti e per l’abbattimento delle frontiere del manicomio stesso, e poi a livello nazionale, con la legge Basaglia del 1978, con la quale vennero eliminate le pene corporali.
Abbiamo poi concluso con un excursus riguardante le fonti dalle quali possiamo attingere per documentarci sulla storia del manicomio. Ricordo in particolare il libro fotografico Morire di classe, il programma televisivo “I Giardini di Abele” e il documentario “La favola del serpente”.
Durante il secondo incontro – con taglio seminariale – sono invece stati presentati i progetti di rigenerazione dell’ospedale psichiatrico, realizzati dagli studenti della facoltà di architettura di Trieste, che ogni anno si sono concentrati su un concetto diverso e da li hanno costruito i loro elaborati. Il primo anno il tema centrale è stato quello del limite, distinto tra limite fisico e mentale, che fa riferimento in questo caso a come, nonostante i muri del manicomio siano crollati, l’ambiente ancora non si integri con il paesaggio circostante, in parte anche a causa della vegetazione incolta e degli edifici abbandonati che lo circondano; a questo poi si aggiunge il limite mentale, dato dal fatto che il parco è ancora visto oggi come luogo di esclusione. L’obiettivo era dunque quello di lavorare sui bordi e di riuscire ad abbattere i limiti, senza però distruggere la memoria del luogo, ma tentando anzi di valorizzarla. Al secondo anno gli studenti hanno invece lavorato sul tema della soglia, ovvero sul cancello dell’ospedale psichiatrico, e alla riorganizzazione generale del parco. Tra i progetti presentati troviamo ad esempio la realizzazione di un giardino inglese decorato con padiglioni vari, la cui conformazione rimanda però alla realtà del manicomio, come nel caso della costruzione di un panottico (riferimento a M. Foucault, Sorvegliare e punire). In più bisognava donare nuova vita al villino dell’economo: uno dei progetti proposti consisteva nel ri-arredarlo seguendo i canoni della casa italiana degli anni ’30 ma sostituendo ad alcuni elementi d’arredamento tipici, quelli del manicomio, ad esempio mettendo un letto di contenzione al posto del letto classico. Al terzo anno infine, la rigenerazione ha riguardato soprattutto la colonia agricola, che può essere rimessa in funzione tramite la realizzazioni di orti urbani o di osterie a kilometro zero che sfruttino quei terreni per coltivare i loro prodotti. Un’altra proposta prevedeva invece la costruzione di padiglioni, ovviamente anche qui legati alla storia del manicomio, quali il padiglione dell’erba matta, volto all’essiccazione delle erbe aromatiche, e quello delle api. In particolare quest’ultimo rimanda al modo in cui le popolazioni italiane e slovene riuscivano a trasportare il miele da una parte all’altra del confine, dove sistemavano delle arnie piene e delle arnie vuote, cosicché fossero le api stesse a trasportarlo. nfine, Valentina Rodani ci ha illustrato il lavoro realizzato durante il workshop “L’Arcipelago di Marco Cavallo” con la supervisione e collaborazione dell’architetto Luca Merlini, a cui lei stessa ha partecipato. Sostanzialmente l’obiettivo era quello di presentare un progetto, che avesse come soggetto il parco dell’ex manicomio Francesco Giuseppe di Gorizia, lavorando sul concetto di arcipelago e enclave (città murata). Il lavoro è stato diviso in più fasi, ha compreso la ricerca di fonti d’ispirazione (tra cui il Parc de la Villette a Parigi e il progetto di rigenerazione di Berlino Ovest) e la realizzazione di una narrazione che giustificasse e supportasse il progetto stesso. Questa in particolare fa riferimento alla storia di Marco Cavallo, simbolo del movimento di liberazione dei malati mentali, che viene immaginato mentre viaggia per tutta l’Europa, di città e città, decidendo poi di prelevare da ognuna di queste un pezzo per portarlo nel parco dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Il compito degli studenti è stato quello di riuscire a creare un “collage” con le fasce di undici città (la dodicesima fascia era data dal parco stesso ed è stata soprannominata Città Mancante), e di creare poi una torre, sia fisicamente sotto forma di modellino, sia semplicemente sotto forma di disegno, i cui piani sono dati dalle lettere che formano il nome ”Marco Cavallo” che sono state scavate da quelle stesse fasce.
Il seminario si è concluso poi con una riflessione riguardante la citazione “Art, be it painting, literature or architecture, is the remaining shell of thought”, che esprime al meglio il collegamento tra l’arte, in questo caso l’architettura, e il concetto che sta dietro di lei e dal quale essa si sviluppa.
Il laboratorio itinerante di Massimo De Bortoli
Nel pomeriggio del secondo giorno abbiamo potuto scegliere se partecipare al laboratorio di cinema “Il ritmo (visivo) della città. Modernità e visione nelle sinfonie urbane degli anni Venti” tenuto da Paolo Villa – laureato in Storia dell’arte e dottorando con un progetto sul film sull’arte del dopoguerra – oppure al Seminario Itinerante “Michelstaedter . Il filosofo e la città. La Gorizia di Carlo Michelstaedter” tenuto da Massimo De Bortoli, docente di Filosofia e Storia al Liceo “Le Filandiere” di San Vito al Tagliamento e collaboratore territoriale della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari .
Noi studenti della 5°A abbiamo utti optato per la seconda attività, grazie alla quale abbiamo potuto visitare i luoghi simbolo dell’intellettuale goriziano, quali via Rastello (dove è presente la statua di Carlo Michelstaedter), piazza Vittoria (dove si trovano la casa natale e la soffitta di N. Paternolli), la Biblioteca Statale Isontina (già Staatsgymnasium, il liceo frequentato dal filosofo), e il Ghetto ebraico (luogo di provenienza della famiglia) con la Sinagoga e la saletta del museo dedicata alla figura di Michelstaedter.
Le conferenze del mercoledì
Il terzo giorno è stato dedicato agli interventi di Giovanni Fraziano, Raffaele Milani , Alessandra Marin, Gianfranco Guaragna, Elena Marchigiani e Sara Basso. I docenti rispettivamente presentato le conferenze: “Il percorso del coltello, dalla città alla postmetropoli”, “Bellezza e stereotipo. Sull’arte della città”, “Spazio urbano e cittadinanza. Dove abita la città “giusta”?”, “Gehry e Singer: L’uso di ciò che viene disprezzato” e “Città al futuro. Progetti per spazi accessibili, inclusivi e resilienti”.
In generale, il campus è stato costruttivo e interessante, nonostante i temi trattati nelle conferenze alle quali abbiamo partecipato siano stati affrontati con un taglio meno filosofico e più multidisciplinare di quanto ci aspettassimo. Abbiamo comunque avuto modo di cogliere elementi di interesse filosofico, soprattutto in ambito etico-sociale.
È un’attività che consigliamo caldamente agli allievi che nutrono interesse per la filosofia o per l’argomento approfondito, che permette, come nel nostro caso, di terminare l’esperienza arricchiti.