SUMMER SCHOOL DI FILOSOFIA E TEORIA CRITICA 2019
Report della classe 5°B del Liceo Copernico:
Mariagrazia Campanaro, Carla Delle Vedove, Angelica Grassi, Beatrice Pilosio
Durante il primo giorno del primo turno, il 23 settembre 2019, si sono svolte quattro lezioni, una delle quali poteva essere in seguito approfondita durante il seminario nella mattinata del secondo giorno. Si è scelto di partecipare al seminario tenuto dalla professoressa Sergia Adamo. Per il pomeriggio del secondo giorno, invece, l’attività svolta è stata il laboratorio itinerante riguardo al filosofo goriziano Carlo Michelstaedter. Il terzo giorno, infine, è stato sviluppato in cinque lezioni seguite da tutti i partecipanti del primo e del secondo turno.
Camminare in città: strategie e tattiche creative a partire da Michel de Certeau
La lezione e il seminario di Sergia Adamo
Il primo seminario è stato tenuto dalla professoressa Sergia Adamo, e ha avuto come tema la città moderna e la visione di essa in ambito letterario.
La città è emblema della modernità e del progresso, è elaborazione e formazione del nuovo. Nel nostro immaginario collettivo è innovazione: non semplicemente un luogo, ma uno spazio urbano che inventa e dà origine a storie e narrazioni che plasmano il quotidiano.
La città offre diversi punti di vista da cui può essere osservata e interpretata. Se la guardiamo dall’alto possiamo controllarla, se invece ci addentriamo in essa possiamo diventare parte delle storie e delle narrazioni che produce. È questa la visione della città di Michael de Certeau, filosofo, storico della cultura e della lingua e pensatore politico del Novecento.
Secondo Michael de Certeau, l’essere umano desidera osservare la città dall’alto perché in questo modo si sente in grado di controllarla nella sua totalità e di dominarla attraverso un solo sguardo. Prova una pulsione scopica, ovvero desidera vedere la città nella sua interezza, come una divinità che guarda gli uomini da una posizione sopraelevata. Dall’alto la percepisce muta, immobile, fissa, stabile e controllabile. Nel momento in cui l’essere umano, invece, scende da questa posizione privilegiata entra concretamente a far parte della città, conosce le particolarità e le singolarità, sente i rumori, attiva tutti i sensi, incontra corpi e persone, avverte il continuo frenetico movimento che caratterizza gli ampi spazi urbani. Non è più capace di controllare la città nella sua totalità: prova quindi un senso di limitatezza, vulnerabilità e incertezza, elementi propri della natura umana.
Una volta immerso nella città, l’uomo diventa anche creatore e innovatore di essa: è da ogni suo singolo incontro che la quotidianità si sviluppa e che quindi diviene nel corso del tempo, determinando la microstoria e la macrostoria. Nella città si creano storie multiple senza autore e senza pensatore, facendo in modo che essa non sia fissa nel tempo, ma sia in continuo transito. La storia incomincia a livello del suolo passo dopo passo perché camminando possiamo inventare percorsi, ognuno dei quali è diverso in base alle nostre intenzioni e ai nostri desideri. In questo modo ogni giorno creiamo qualcosa di nuovo: la vera innovazione quindi sta nella quotidianità.
Michael de Certeau però non è il primo a riflettere su quanto sia importante camminare all’interno di una città, cosa che può sembrare un’azione banale, ma che in realtà è determinante per lo sviluppo dello spazio urbano. Il filosofo e pensatore tedesco Walter Benjamin, infatti, vede la Parigi del diciannovesimo secolo non solo come capitale, ma anche come prefigurazione di ciò che sarebbe successo nella modernità e di come essa si stesse evolvendo.
Benjamin comincia le sue riflessioni traducendo i componimenti del poeta Charles Baudelaire, il quale all’interno de I quadri parigini, racconto poetico della città per eccellenza negli anni ’20, centra una questione fondamentale: lo spazio urbano, la città e le storie che essa produce. Egli comprende che le città sono “vive” e in continua trasformazione a causa dell’attività umana e in esse diventano di fondamentale importanza i luoghi di passaggio, definiti passage in francese. Questi ultimi infatti sono centrali luoghi di aggregazione, in cui coloro che appartengono alle classi sociali più ampie vi passeggiano nel tempo libero e in cui la borghesia comincia a sviluppare le proprie botteghe nella direzione di una nuova economia capitalistica. Anche la struttura architettonica dei passage è innovativa e rispecchia la nuova società degli inizi del Novecento: queste vie sono caratterizzate dal pullulare di botteghe e sono coperte solitamente da strutture in ferro e vetro che permettono il penetrare della luce, creando un’atmosfera suggestiva. I passage della città sono quindi un esempio di fantasmagoria, ovvero di una rapida successione di immagini, luci, colori e elementi che lasciano confusi chiunque li attraversi. È la stessa sensazione che proviamo al giorno d’oggi quando ci troviamo in un grande centro commerciale.
Il passage è il luogo in cui tutti camminano frettolosamente, in alcuni casi senza che ci sia una meta ben precisa, ma è anche il luogo in cui si fanno nuove conoscenze e in cui avvengono incontri casuali tra persone che si scambiano uno sguardo all’improvviso. Per un attimo le loro storie si incrociano diventando una parte dell’altra. A volte queste storie entrano in atto, mentre in altre non hanno un seguito. Per questo i passage sono il luogo delle possibilità, di ciò che succede e di ciò che sarebbe potuto succedere.
Un’altra caratteristica della città moderna secondo Benjamin sono le vetrine, specialmente quelle in cui sono esposte merci di lusso che il passante si ferma ad osservare ammaliato, nonostante spesso non abbia le possibilità economiche per permettersi di acquistare determinati prodotti. Anche in questo caso il sentimento provato è la fantasmagoria.
Le città moderne sviluppate a partire da fine Ottocento e inizio Novecento si rivelano quindi una fondamentale innovazione che ha determinato un nuovo modo di vivere e di percepire la realtà. Sono diventate il luogo per eccellenza in cui si producono storie, dunque il luogo da cui proviene il progresso. La sensazione di fantasmagoria, di stupore, di impotenza e di necessità di controllo prodotta agli inizi del Novecento dalle nuove città forse è la stessa che prova ognuno di noi quando si trova in un luogo vasto e ignoto: si sente il bisogno di elementi a cui aggrapparsi per poter controllare e comprendere la situazione.
Il laboratorio Michelstaedter
Il filosofo e la città. La Gorizia di Carlo Michelstaedter
A cura di Massimo De Bortoli
Il laboratorio è stato tenuto dal professor Massimo De Bortoli. L’incontro si è svolto in forma itinerante per le strade di Gorizia e nei luoghi più significativi per la sua vita: via Rastello dove è situata la sua statua, piazza Vittoria in cui si trova la casa natale, la Biblioteca Statale Isontina, all’epoca liceo frequentato dal filosofo e il Ghetto ebraico, luogo di provenienza della famiglia. Gorizia può perciò diventare un testo vivente che racconta la sua vita.
Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 giugno 1887 e muore suicida per un colpo di rivoltella, sempre a Gorizia, il 17 ottobre 1910. In quei brevi ventitré anni di vita affianca agli studi universitari la composizione di saggi, racconti e poesie. Inoltre, disegna e dipinge. È l’ultimo dei quattro figli di Alberto Michelstaedter ed Emma Luzzatto Coen. Frequenta lo Staatsgymnasium senza eccellere particolarmente. All’esame di maturità dichiara di voler seguire gli studi di diritto, ma si iscrive alla facoltà di matematica dell’Università di Vienna: non frequenta però le lezioni e nell’autunno del 1905 si stabilisce a Firenze, iscrivendosi all’Istituto di Studi Superiori. Sono anni di studio e di soddisfazioni, ma anche di dispiaceri: cerca di entrare nella redazione di qualche giornale, ma pubblica solo tre articoli; si offre anche come traduttore dal tedesco e dal francese, ma senza molto successo; il fratello Gino muore a New York in circostanze non chiarite che fanno parlare di suicidio.
Nel giugno 1909 ritorna definitivamente al Gorizia.
Il giorno del compleanno della madre Emma, Carlo resta nella casa di città, tutto preso dal lavoro. Pare che i Michelstaedter usassero scambiarsi i doni e festeggiare le ricorrenze la sera della vigilia. La madre si sente dimenticata nel giorno della sua festa. Scende la collina del castello, rimprovera aspramente Carlo e il figlio reagisce con uno scatto di collera. Dopo, se ne pente. Rimasto solo, non scrive nemmeno un messaggio d’addio, con una rivoltella si spara.
Le conferenze del terzo giorno
1 – Il percorso del coltello, dalla città alla postmetropoli
Il primo incontro è stato tenuto dal professor Giovanni Fraziano. Il docente ha iniziato la sua riflessione ricordando un inconsueto evento che accadde a Venezia nel 1985: solca la laguna un enorme coltello di 22 metri dal quale scendono diversi personaggi a cui sono stati attribuiti diversi significati quali il commercio, l’architettura e la letteratura.
Strettamente connessa a Venezia e all’enorme coltello è Peggy Guggenheim. Quest’ultima è la figlia di uno delle vittime del Titanic e diventa ereditiera di 23 milioni di euro grazie a uno zio. Successivamente sposa un letterato delle avanguardie parigine. Grande appassionata di arte, si prefigge di comprare un quadro al giorno e lo fa per almeno 3 anni. Durante la Seconda guerra mondiale cerca di difendere il patrimonio portandolo negli Stati Uniti e porta con sé anche molti pittori, mettendo in moto un’ enorme migrazione. Realizza una galleria d’arte moderna e costruisce una casa a questi artisti, creando una nuova arte americana.
Alla fine degli anni 40 torna a Venezia con l’idea di rimanerci, acquista il palazzo “Venier dei leoni” e crea una collezione privata. Successivamente acquista il coltello che tanto aveva creato scandalo anni prima a Venezia.
Questo sembra esplicitare le domande contraddittorie cui è sottoposta la città contemporanea e l’architettura che la costituisce. Con allegria e ironia quest’opera rimanda alla morte dell’architettura tradizionale e ci porta a una attenta riflessione verso la città storica, di cui Venezia è emblema.
2 – Bellezza e stereotipo. Sull’arte della città
La città è un elemento fondamentale per la creazione di una comunità, di una cultura, di un’idea e di una storia; così la definisce Raffaele Milani. Per il relatore il luogo cittadino può essere rappresentato come una nave tra il mare che deve essere necessariamente governata da uomini per non farla sparire in mezzo alle onde. Milani racconta che la città può essere anche definita come un mito poiché è riproduzione dell’unione tra il fantastico e l’edificabile. Il fantastico è elemento di creatività, che porta l’uomo alla costruzione di una città mai ripetitiva e sempre unica nel suo genere; l’edificabile è, invece, la messa in atto di quel processo immaginativo che l’uomo fa per ricreare la sua identità all’interno del luogo in cui vive. Questi elementi portano all’identificazione di due tipologie di città: la prima è la città ideale e la seconda è quella reale. La città ideale può essere rappresentata solo nella pittura ed è un luogo utopico dove tutto è solo idea e niente materia; mentre la città reale è quella nella quale possiamo camminare, incontrare persone, essere attivi e vivere. Milani dice, inoltre, che la città è emblema di bellezza; essa, infatti, si manifesta come bene comune in cui l’uomo è il diretto responsabile. Il centro abitato può essere in qualunque momento modificato, ma sempre rispetto al volere e alla scelta della comunità, la quale adeguerà le modificazioni alla propria consapevolezza etica di gruppo. Il relatore ha una concezione hegeliana del centro urbano; difatti crede che ci sia un’importante relazione tra le idee e le trasformazioni del pensiero umano e la modificazione strutturale e architettonica della città; le percezioni degli uomini diventano partecipazione e attuazione reale degli edifici costruiti nella città. Con la frequente modificazione del centro urbano l’uomo, però, non riesce a individuare dei punti fissi utili per la propria identificazione, quindi crea alcuni modelli di edifici ripetitivi; questi assumono la forma di stereotipi, cioè di modelli che definiscono stabilità e certezza, utili per una comunità sempre in divenire.
3 – Spazio urbano e cittadinanza. Dove abita la “città giusta”?
Il concetto di “città giusta”, come spiegato da Alessandra Marin, indica una grande metropoli in cui vengano rispettati la vita dei cittadini e il patrimonio ambientale, che vengono presi in considerazione dall’urbanistica, sapere autonomo sviluppatosi a partire dalla prima rivoluzione industriale. Da fine Ottocento, infatti, con lo sviluppo delle prime città cresce l’esigenza di figure formali e caratteri che organizzino il nuovo contesto urbano. È importante che quest’ultimo sia organizzato su elementi oggettivi che soddisfino i desideri e i bisogni di ogni persona, anche quando questi non sono uguali per tutti; chi ha il potere deve garantire che le decisioni vengano prese per il bene di cittadini.
La città giusta si articola in base al rapporto tra l’urbanista e il cittadino secondo tre dimensioni possibili. Nella dimensione conservatrice l’urbanista ordina al cittadino cosa deve fare senza tenere in considerazione le sue esigenze. In questo caso non c’è alcuna forma di partecipazione. Nella dimensione progressista, invece, le proposte dell’urbanista vengono discusse insieme ai cittadini, all’amministrazione e ai tecnici. Nella dimensione libertaria, infine, l’incontro tra l’urbanista e il cittadino è visto come occasione di apprendimento reciproco. Affinché si raggiunga la “città giusta” è fondamentale che ci sia la collaborazione tra l’urbanista e il cittadino.
È anche importante che la “città giusta” sia basata sull’equità distributiva delle risorse, ovvero tutti devono poter accedere ugualmente al patrimonio, e sull’utilità collettiva affinché ci possano essere spazi pubblici in cui la collettività possa riunirsi in libertà e senza nessun tipo di segregazione. Deve quindi sussistere per tutti i cittadini il diritto alla città, la quale diventa in questo modo proiezione della società e dei bisogni delle persone superando il valore di scambio, del profitto e della rendita.
4 – Gehry e Singer: l’uso di ciò che viene disprezzato
Il quarto intervento è stato tenuto dal professor Gianfranco Guaragna a proposito di Gehry e Singer. Gehry, come i fratelli Singer, proviene da una famiglia di ebrei polacchi. Egli è sempre stato interessato alla pittura, alla scultura, all’architettura piuttosto che al mondo letterario come lo erano i fratelli Singer. Ciò nonostante, esiste un legame che allaccia il mondo creato da Gehry con l’architettura e quello creato da due fratelli con la narrativa. Le architetture realizzate evidenziano il suo grande interesse per la Pop art, della quale in un certo modo si ne è interprete in architettura. Molti nutrono sentimenti di avversione verso di lui, anche gli stessi Singer, suscitato dalla peculiarità che caratterizza il lavoro di entrambi e che in qualche modo li accomuna. Ad esempio Gehry inserisce nelle sue opere il “trash”, ma erano stati i fratelli Singer a introdurre nella letteratura yiddish argomenti “scomodi” come il sesso, i malviventi, i reietti della società.
5 – Città al futuro. Progetti per spazi accessibili, inclusivi e resilienti
La salute non consiste soltanto nell’assenza di malattia, ma in un completo stato di benessere. Secondo le due relatrici Elena Marchigiani e Sara Basso, è fondamentale che nella città, luogo che nonostante offra maggiori opportunità presenta anche disuguaglianze sociali, ci siano le condizioni spaziali adeguate a mantenere il benessere e a fare in modo che sia favorita la giustizia sociale. Chi deve disegnare gli spazi quindi deve renderli accessibili e fruibili da tutti e deve porre l’attenzione sulla sostenibilità e l’inclusione. È quindi opportuno che sia possibile spostarsi agevolmente e confortevolmente in modo sostenibile, in sicurezza e in autonomia; anche le nuove infrastrutture devono permettere il welfare e ci deve essere un numero sufficiente di spazi verdi. Soltanto attraverso questa “giustizia spaziale” sarà possibile ottenere la giustizia sociale.