di Maria Vidal, docente del Liceo Copernico
Dice di essere ogni volta stupito da quanto le domande dei ragazzi delle scuole superiori siano precise, acute, capaci di cogliere i nuclei essenziali delle questioni messe in campo e siano forse meno strutturate, più originali e creative, rispetto a quelle dei suoi abituali allievi, giovani universitari del corso di Pedagogia dell’Università di Udine.
Così Davide Zoletto, alla fine della sua conferenza, che ha aperto i lavori della Summer School di Filosofia a Grado, commenta gli interventi degli allievi dei Licei Copernico e Marinelli di Udine ed Einstein di Cervignano.
In realtà lui stesso, fin dalle prime battute, aveva impostato il lavoro invitando i ragazzi a mettersi in gioco: non si sarebbe trattato di seguire una presentazione power point o una struttura argomentativa già definita nel dettaglio; si sarebbe cercato, invece, di costruire insieme un ragionamento su un tema di drammatica attualità, quello dell’immigrazione.
Il titolo, Dall’integrazione all’inclusione. Tra “scienze dell’immigrazione” e “brusio delle pratiche”, delinea il filo conduttore della ricerca: sono davvero in grado le scienze umane e della formazione – in particolar modo quelle che focalizzano la loro attenzione sulle interazioni fra migranti e istituzioni educative – di comprendere a fondo la complessa realtà che si sforzano di studiare e di proporre quindi strategie educative efficaci? O piuttosto le reti concettuali, le parole che utilizzano non sono forse esse stesse strutture che costruiscono l’oggetto di studio, anziché conoscerlo, secondo un’ottica che è sempre quella del “paese ospitante”?
Ecco in che senso “può essere prezioso il lavoro filosofico sulle parole nel contesto della pedagogia”, dice Zoletto. Riflettere sui giochi linguistici, sugli usi e la storia delle parole, attraverso una prospettiva decostruzionista, è la via che lui propone e, sebbene la maggior parte dei ragazzi non conosca ancora Wittgenstein né Derrida – siamo solo all’inizio della classe quinta – l’attenzione è viva e la curiosità tiene la mente ferma sul nuovo lavoro da svolgere.
Le parole chiamate in causa sono integrazione, inclusione, dialogo.
Una prospettiva di analisi critica è offerta da La doppia assenza. Dall’illusione dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato del sociologo algerino A. Sayad: le scienze dell’immigrazione, pur presentandosi, nello sforzo di individuare pratiche educative “inclusive”, come forme di sapere neutre, riproducono in realtà una logica etnocentrica in cui l’oggetto da studiare è sempre e comunque solo l’immigrazione, mai l’emigrazione. Ogni immigrato nel nostro paese è un emigrato nel paese d’origine, ma di questa assenza e dei suoi effetti nessuna “scienza” si è mai occupata, proprio perché il suo oggetto è già costruito secondo la linea di pensiero del paese ospitante, che rimuove una parte della realtà. Per questo non solo l’”integrazione”, parola in cui è implicita l’idea che sia solo lo straniero a doversi adattare, modificando il proprio modo d’essere, al paese ospitante, ma la stessa “inclusione”, che suggerirebbe un pensiero secondo cui l’intero sistema del paese accogliente debba cambiare per poter valorizzare le differenze (si pensi a cosa questo significhi, ad esempio, nel lavoro a scuola), sono concetti fondati su un punto di vista “dominante”, già in partenza “pensiero di Stato”, logica di potere. La lezione di M. Foucault emerge dallo sfondo ed indica il carattere anche politico di questa riflessione. Perfino la parola dialogo, cardine di un’idea di incontro tra culture, componente essenziale dell’inclusività, rivela ad uno sguardo critico il suo carattere ambiguo: il dialogo è una relazione, ma di che tipo di relazione si tratta? Di che giochi linguistici fa parte? A che cos’è finalizzato? Esprime comunque il punto di vista di coloro che sono in grado di dialogare. E gli altri?
Una possibile via d’uscita è ripresa da M. de Certeau, che ne L’invenzione del quotidiano oppone alle strutture concettuali del sapere il “brusio delle pratiche”, le “tattiche” attraverso cui i singoli individui creano, nella concretezza delle situazioni di vita, reti di relazioni con gli altri viventi e l’ambiente che sfuggono ad ogni previsione ‘scientifica’, ad ogni forma.
Da tutte queste sollecitazioni sorgono le domande dei ragazzi, di cui ricordo solo qualcuna:
– È necessario oscillare tra “scienza alta” e “brusio delle pratiche” od è invece possibile trovare una sintesi di tipo hegeliano tra le due? –
– Fino a che punto deve spingersi una ricerca di tipo decostruzionista sulle parole? È possibile arrivare ad una completa chiarificazione del linguaggio? C’è un limite?
– Nella concreta pratica educativa, quanto l’osservatore riesce ad avere consapevolezza critica?
Il dibattito è aperto, la Summer School 2015 sembra iniziare bene.