Da pochi giorni in libreria anche il libro di Giorgio Giacometti. L’ampio studio propone una prospettiva inedita e provocatoria: intellettuali “marginali”, icosiddetti filosofi praticanti, a condizione che si ispirino al modello del dialogo socratico-platonico, sarebbero, oggi, i soli filosofi degni di questo nome, anche quando (anzi soprattutto quando) esercitano l’attività professionale di “consulente filosofico”. La filosofia non coinciderebbe con il suo insegnamento scolastico e universitario, non avrebbe a che fare con i libri, ma consisterebbe in questa pratica molto più concreta, di origine “preistorica”, in grado di sbrogliare i nodi in cui la nostra vita spesso si imbroglia. Giacometti intreccia nel corso del volume un immaginario dialogo con il lettore (che egli, peraltro, contraddittoriamente?, sfida a più riprese ad abbandonare la lettura per sperimentare le pratica reale). Vi si approfondiscono, con dovizia di riferimenti culturali e, soprattutto, esperienziali, il processo in cui consiste una pratica filosofica, i benefici che è lecito attendersene, la differenza tra la pratica filosofica (alla quale è rivendicata, sulla scia di Hadot e Foucault, la dignità di “esercizio spirituale”) e altre attività più o meno affini (dalle psicoterapie alle forme di meditazione).
In realtà, come avverte Giangiorgio Pasqualotto nel suo denso saggio introduttivo dedicato al rapporto tra pratiche filosofiche d’Oriente e d’Occidente, anche se l’argomento del volume è la “consulenza filosofica”, di fatto ciò che ne costituisce il principale motivo di interesse è l’investigazione sulla natura della stessa “filosofia”, un’investigazione che, in nome di un “ritorno a Platone”, si spinge a mettere in discussione, discutendoli analiticamente, diversi “modelli” di filosofia e di “metodo filosofico”: dall’ermeneutica “accademica” contemporanea agli approcci teoretico-metafisici, dallo “storicismo” diffuso soprattutto tra i “continentali” alle correnti di tipo “pragmatistico-strategico”.