Lo sguardo da vicino
Seminario tenuto in occasione della Summer School 2015 dal prof. Tiziano Possamai
Report di Carlo Polo, Liceo Scientifico Le filandiere, San Vito al Tagliamento
Identità. Uno dei cardini filosofici, sociologici e antropologici della cultura occidentale. Siamo tutti portati a riconoscere in essa un carattere di univocità, per una tradizione che si radica nell’eleatismo e procede da Aristotele alla Scolastica trovando il suo apogeo in Christian Wolff nel Settecento. Pensiamo solitamente all’identità personale, all’individualità di ciascuno, come risultato di un processo di autodeterminazione di una coscienza autoreferenziale, che si articola e si sviluppa entro un telaio di caratteristiche innate, di “inclinazioni” o “predisposizioni” che si traducono in azioni o pensieri “peculiari” dell’individuo. Ma davvero il carattere “individuale” dell’identità personale è confacente al suo significato etimologico di “ciò che non può essere diviso”?
In realtà -argomenta il prof. Tiziano Possamai- l’antesignano della psicanalisi, Sigmund Freud, attraverso la “gruppalità” intrinseca all’Io, tripartito in Io, SuperIo ed Es, rivela come l’alterità sia una condizione strutturale dell’identità stessa, come la presunta individualità sia il prodotto di una pluralità di fattori interni, e addirittura come la conoscibilità stessa dell’identità sia una pura utopia logica, poiché negli ineffabili abissi dell’inconscio si agitano forze che travalicano la nostra possibilità di conoscerle. Da questa prima analisi evinciamo la prima critica all’univocità dell’identità: l’identità personale è de-terminata, ossia resa cosciente di se stessa, da un “altro” interno alla psiche.
Il secondo punto della riflessione del prof. Possamai si articola in un iter opposto e complementare al precedente: gli esponenti dello strutturalismo e del post-strutturalismo in generale e l’antropologo Gregory Bateson (1904-1980) in particolare, dimostrano come l’identità di individui, etnie e società sia il prodotto di una serie di strutture cognitive, culturali e sociali.
In psicologia si parla di “introiezione” allorché un essere umano sia in grado di incorporare atteggiamenti e sofferenze altrui; astraendo questo concetto, un determinato individuo di una determinata società “introietta” le dinamiche di quest’ultima, traducendole in uno specifico habitus, che viene definito “costume” o “tradizione” che caratterizza univocamente quella società, ma che in realtà è specifico di quella particolare società nella misura in cui i fautori di quella stessa società l’hanno reso tale. Dunque il soggetto non è un’individualità innata ed estrinseca al contesto sociale, ma è un prodotto della società in cui è inserito, come in altro contesto teorico già Hegel aveva intravisto, quando nella Fenomenologia dello Spirito (vol.1, p. 361) afferma che noi siamo sempre <<dentro la sostanza etica>>, nel senso stretto di sub-stantia, ovvero di <<sostrato che regge e rende possibile ogni atto della vita individuale>> (Gianni Vattimo).
L’analisi si sposta in seguito su un altro versante. Stabilito che l’alterità determina l’individualità psichica e sociale, essa può venire a configurarsi anche come un fattore di stabilità all’interno di una società.
Sempre stando a Bateson, in Naven, nel sistema sociale di una tribù della Nuova Guinea, un habitus singolare è quello di svolgere un rituale in cui gli individui maschili si travestono e assumono gli atteggiamenti degli individui femminili e viceversa. Gli atteggiamenti maschili (definiti ethos), in quella tribù, constano di approcci vanitosi ed esibizionisti nelle interazioni sociali, al fine di enfatizzare la virilità, che però si concatenerebbero sino allo scontro tra individui se la potenza della loro affermazione non fosse mitigata da un atteggiamento opposto e complementare, quale è l’eidos femminile, imperniato su pacatezza, abnegazione e ascolto. Ora, l’eidos, contraltare dell’ethos di cui è completamente “altro”, equilibra il sistema sociale che altrimenti imploderebbe, non tanto e non solo quando la femmina patiens raffredda le escandescenze del maschio agens, bensì anche quando il maschio stesso “introietta” l’habitus femminile, quando il maschio diviene “altro”, e ciò vale anche per un individuo femminile nella sua generalità che non potrebbe reggere il peso di un’esistenza votata alla sopportazione.
Tralasciando la peculiarità sociale delle distinzioni tra sessi (la struttura sociale in questione è quella arcaica della tribù), si vede come questo rituale possa essere significativo anche se calato nel contesto delle grandi socialdemocrazie moderne.
L’“altro”, può essere pars construens di un Io più “autentico” – non cartesiano, monolitico – più presente a sé e al mondo in quanto calato in tutte le declinazioni del Sé e del mondo; di un Io che, se immesso in quel processo dialettico che la filosofia ha lungamente amato definire “travaglio del negativo”, è in grado di divenire identità, laddove il verbo divenire indica il carattere dialettico dell’identità e la sua dipendenza dal confronto con tutto ciò che è altro. A differenza del processo dialettico, tuttavia, Bateson e gli altri autori convocati da Possamai, si pongono sul piano dell’azione, delle culture e delle pratiche e non solamente sulla via speculativa dell’hegelismo e del post-hegelismo.
Carlo Polo, 5D
Un pensiero su “Il seminario di Tiziano Possamai visto da Carlo Polo”
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