Protocollo del seminario Attività inoperose sul libro di Giorgio Agamben L’uso dei corpi di Graziella Berto e Beatrice Bonato
7 ottobre 2015 Aula Magna del Liceo Copernico, Udine
Beatrice Bonato esordisce riordinando il progetto di Agamben e mettendo opportunamente in luce il problema della doppia numerazione di Homo sacer 2.2. L’attenzione di Agamben si è concentrata sulla figura del homo sacer. Figura del diritto romano che indica la condizione dell’uomo messo al bando, ridotto a una situazione di “nuda vita”, quindi privato delle protezioni e della dignità della vita riconosciuta, il bios, e perciò uccidibile senza il pericolo di commettere omicidio. Non sacrificabile, ma uccidibile. È la condizione a cui sono stati ridotti gli ebrei e gli internati nei campi di sterminio nel Novecento. Ma è anche la condizione a cui sono ridotte le masse di esseri umani che la guerra e la fame spingono alla migrazione. Un’altra figura associabile alla nuda vita è quella dell’uomo ridotto a pura risorsa umana nel capitalismo finanziario contemporaneo. Sulla distinzione tra zoe e bios la Sfifvg ha lavorato negli anni scorsi soprattutto in rapporto al pensiero di Derrida. Il legame tra homo sacer e l’uso dei corpi è molto forte. Agamben porta alla luce le operazioni che hanno escluso la nuda vita e che però hanno permesso anche di scoprire una risorsa etica. Per scorgerla si può fa ricorso ad un passo di Homo sacer:
“Contrapponendo la «bella giornata» […] della semplice vita alle «difficoltà» del bios politico, Aristotele aveva dato la formulazione forse più bella all’aporia che sta a fondamento della politica occidentale. I ventiquattro secoli che da allora sono trascorsi non hanno portato alcuna soluzione, altro che provvisoria e inefficace. La politica […] non è riuscita a costruire l’articolazione tra zoē e bíos […]. La nuda vita resta presa in essa nella forma dell’eccezione, cioè di qualcosa che viene incluso solo attraverso un’esclusione. Com’è possibile «politicizzare» la «dolcezza naturale» della zoē? E innanzitutto, questa ha davvero bisogno di essere politicizzata o il politico è già contenuto in essa come il suo nucleo più prezioso? La biopolitica del totalitarismo moderno da una parte, la società dei consumi e dell’edonismo di massa dall’altra, costituiscono certamente, ciascuna a modo suo, una risposta a queste domande. Finché, tuttavia, una politica integralmente nuova […] non sarà presente […] la «bella giornata» della vita otterrà cittadinanza politica solo attraverso il sangue e la morte o nella perfetta insensatezza cui la condanna la società dello spettacolo.” (G. Agamben, Homo sacer, pp. 14-15).
Come è possibile evitare che la bella giornata in cui consiste la vita sia subito messa fuori gioco o assorbita all’interno di un meccanismo di godimento performativo? Il metodo di Agamben è quello di un continentale. Il senso del suo lavoro è che non c’è solo la tradizione, c’è anche l’idea che in questi autori noi troviamo il vocabolario nel quale viviamo. L’idea viene da Heidegger, dalla sua distruzione-decostruzione della tradizione metafisica occidentale, allargando però il campo soprattutto al diritto e alla teologia. Cosa legittima però questa scelta di metodo? Non esattamente un’assunzione delle tesi dell’ermeneutica più classica. Nei testi che legge e rilegge, Agamben cerca di mettere in chiaro le linee del paradigma, o dei paradigmi, all’interno dei quali la cultura, l’antropologia, la politica occidentali hanno costruito non solo le loro categorie portanti, ma i loro dispositivi di funzionamento, le loro “macchine” logiche, narrative (mitologiche) e prescrittive. Paradigma è lo stesso termine di Kuhn; in Signatura rerum Agamben lo ripropone rinnovato e in parte modificato nel senso, sulla scorta di uno stretto confronto con Foucault, che preferisce usare l’espressione “a-priori storici”. Paradigma non è solo quello di Kuhn, ma anche l’idea platonica. è un nome per l’idea. le forme di vita che vengono presentate nel mito di Er alle anime che devono incarnarsi. Agamben cerca di leggere questo mito alla luce del paradigma come esempio o come le pathosformeln di Warburg, sono i modelli come forme, che possono essere riprese e che divengono sempre originali. Non modelli universali sovra storici, ma “esempi” peculiari, che si danno come portatori di un significato universale, il quale tuttavia non è mai accessibile come tale, ma si illumina solo attraverso le occorrenze individuali del modo di vita, l’universale singolare, dove Agamben è vicinissimo a Nancy. L’uso non ha la sfumatura negativa dello sfruttamento, Agamben dice però che usare in latino e greco (uti e chraomai) non sono verbi transitivi, sono deponenti. In greco è piuttosto avere familiarità con. Avere familiarità con i corpi allude alla proprietà, ma la vuole mettere fuori gioco per ricostruire un’altra genealogia. Quella di soggetto che ha capacità che devono essere esplicitate, che sono in potenza. La potenza in Agamben vuole collegare potenza e atto in modo diverso che in Aristotele, vuole considerarli come non opposti. La potenza è sia possibilità sia potenza, ma non potere. Modo di essere che può non passare all’atto, si tratta di pensare la potenza anche in negativo come potere di non fare. Anche quando la potenza all’atto bisogna che la potenza conservi la possibilità di non, cioè che si possa disattivare l’opera. Ecco l’attività inoperosa. Questo porta a pensare in modo diverso anche l’atto come attività che non perde mai la sua caratteristica di possibile. Significa rifiutare il paradigma efficientistico della vita. Liberare la vita dall’assoggettamento all’opera. La potenza da recuperare è la potenza destituente che è capace di sospendere l’opera.
Graziella Berto inizia il suo intervento concentrandosi su inoperosità e cura e dichiarandosi subito molto colpita sia dalla inoperosità, sia dall’inappropriabile. Produce un ampia ricognizione in territorio francese per trovare assonanze al concetto di inoperosità. Désoeuvrement è già in Kojève, quel Kojève che legge Hegel istruendo una vasta schiera di filosofi e psicanalisti presenti ai suoi seminari negli anni Trenta. Il désoeuvrement sta nel non fare opera, in quel sottrarre e venir meno dell’opera che è proprio del lavoro del negativo hegeliano. La canaglia sfaccendata della domenica della vita è un esempio di questo disoperare, disattivare. Questo concetto diventa la dépense di Bataille, il negativo liberato che diventa la sovranità, che si dà nel fuori. Il dibattito viene ripreso da Nancy nella Comunità inoperosa. Pertanto Agamben è ben inserito all’interno della discussione sulla inoperosità. Inoperosità è la condizione della non coercizione, della non normatività, della sospensione della legge. L’inoperosità è mancanza di costrizione, mancanza di obbligatorietà. Esempi di inoperosità sono 1) la potenza della lingua, ed ecco la letteratura in cui la lingua ha un uso non utile e conta solo per la sua potenza di costruzione di senso, 2) la potenza di dipingere, cioè la potenza dello sguardo e 3) la potenza di agire e cioè la politica. Agamben lega queste dimensioni a Marx quando mette in gioco la società senza classi, Marx però non ha sviluppato l’idea di l’inoperosità. Altrimenti avrebbe visto il messianico di Benjamin, sarebbe pervenuto all’annuncio della redenzione nel tempo presente dell’angelo della storia. Da lì si arriva alla dimensione della gloria e del sabato, alla festa e alla danza, cioè alla dimensione della quotidianità. Agli esempi della quotidianità inoperosa, che risulta stare nella dimensione dell’inappropriabile. L’inappropriabile porta verso la dimensione del privato, che mettiamo in una sfera secondaria, e che risulta quasi indicibile. Infine insiste sull’importanza di un’altra serie di espressioni come forma di vita, felicità e girare a vuoto, che meriterebbe un ulteriore approfondimento.
Bonato conclude il suo secondo intervento riflettendo su l’uso del corpo e la schiavitù nella Politica di Aristotele. Il tema di padrone e schiavo e di anima e corpo riporta alle tematiche di Foucault. L’attenzione di Agamben per la vita del filosofo francese passa per il libro di James Miller, La passione di Michel Foucault, il cui merito sta nell’aver ricostruito il rapporto tra vita e opera come cuore del pensiero di Foucault. Cosa cercava Foucault nelle bath-houses di San Francisco, dove probabilmente contrasse l’Aids? Miller dice: il piacere-dolore estremo in cui il corpo viene scomposto e ricomposto secondo una geografia degerarchizzata e persino desessualizzata, la distruzione dell’unità psicologica, la moltiplicazione delle forze. Ma, nello stesso tempo, e Agamben lo rileva con precisione, dimostrando di condividere la lettura di Miller, Foucault continua a inseguire se stesso, a cercare di essere se stesso in questo deragliamento. “Diventa ciò che sei”: l’enigmatico invito di Nietzsche ha continuato a tormentarlo e a guidarlo. Nelle pratiche sadomaso, giochi di potere che contengono la possibilità del continuo rovesciamento dei rapporti di potere, egli ha cercato al tempo stesso un più sottile e più elevato esercizio di auto-dominio. L’affermazione di un individuo libero, pienamente in possesso delle proprie facoltà, messe all’opera per dar forma alla vita. Questo è il paradosso. Ed è qui che la via di Agamben diverge da quella di Foucault. Ciò non comporta un giudizio negativo sulle vie da lui intraprese. In un certo senso Agamben vorrebbe una maggiore radicalità nella destituzione del soggetto libero. Ma perché? Leggiamo un passaggio:
“Ciò che Foucault non sembra vedere […] è la possibilità di una relazione con sé e di una forma di vita che non assumano mai la figura di un soggetto libero; cioè, se le relazioni di potere rimandano necessariamente a un soggetto, di una zona dell’etica del tutto sottratta ai rapporti strategici […]”. (p. 148)
Quali potrebbero essere le forme di vita senza opera, già in se stesse politiche, perché comuni? Senza dubbio l’esercizio del pensiero, nella misura in cui disinnesca l’agire produttivo, il pensiero inoperoso è innanzitutto il pensiero improduttivo. Non è improduttivo solo perché si occupa di argomenti oziosi o astrusi, inutili, ma proprio in quanto attività/potenza di pensare che non conclude in un compimento. Ma non si tratta solo di questo. C’è anche una forte attenzione rivolta al segreto indicibile della vita individuale, quel segreto che cerca goffamente di dirsi negli annunci delle persone sui giornali, e che ci irrita e insieme ci commuove. E poi si tratta di prendere in considerazione, seriamente, come la nostra vita sia al tempo stesso pensiero e sonno, per esempio. Ma non tanto per studiare i modi più efficaci per avere un buon sonno (cioè per risvegliarsi ben riposati e pronti a riprendere l’opera): proprio per trovare il comune in questa deposizione, in questo abbandono (si potrebbero interpretare anche così, i quadri di Lucien Freud commentati da Claudia Furlanetto nel suo saggio contenuto in Voci del corpo.
È seguita la discussione con interventi di Eliana Villalta, Francesca Scaramuzza, Claudia Furlanetto, Maria Vidal, Claudio Tondo, Enrico Petris.